Patatine fritte, Veneri di pane e acquerelli multiformi. La Chola Poblete a Milano
È questo un “assaggio” di quello che vi aspetta nella mostra di questa giovane artista argentina al MUDEC. Un progetto inaspettato, ricco di simboli e riferimenti che spaziano dalle divinità indigene alla musica rock e alla cucina
“I riquadri a camouflage, utilizzati come elementi compositivi delle mie opere, simboleggiano le mie esperienze personali con il concetto di identità”. Queste parole introducono bene il concetto dell’arte dell’argentina La Chola Poblete. Ciò che è mutevole, fluido e ibrido per definizione – il camouflage, appunto – diventa per lei metafora artistica e non solo. È un modo per esprimere la propria identità che non vuole rientrare in nessuna categoria: un insieme di origini orgogliosamente indigene, di femminilità, ma anche di apertura a diverse, infinite, possibilità di genere. Con tale consapevolezza acquisita, ci si può accostare alla mostra che la vede protagonista in quanto Deutsche Bank Artist of the Year 2023. Riconoscimento, questo, assegnato a La Chola nella tredicesima edizione del prestigioso Premio che la banca tedesca organizza a supporto dell’arte emergente di particolare valore sociale. La sua ricerca è stata ritenuta di rilievo per l’originalità nel trattare tematiche attuali – l’eredità del colonialismo, l’identità di genere, le condizioni dei popoli indigeni – arrivando alle orecchie dei contemporanei.
La mostra Guaymallén, proposta dal MUDEC di Milano, sintetizza la sua ricerca e la presenta al pubblico cittadino, dopo la prima tappa berlinese. E lo fa in modo nuovo e irripetibile. Tutte le sculture esposte sono infatti state realizzate pochi giorni prima dell’apertura. Proprio qui, a Milano… nel laboratorio di uno dei panifici più noti della città. Quello di Davide Longoni. Un motivo in più per essere incuriositi da questo progetto.
Per punti
La Chola Poblete: un’artista tra cultura indigena e fluidità di genere
Il legame tra La Chola Poblete (Mendoza, 1989) e la sua terra natìa – le comunità indigene dell’Argentina del nord – si avverte in ogni sua opera. Anche il suo stesso pseudonimo e il titolo dell’esposizione parlano delle sue radici. Il primo, La Chola, è un termine usato per i poveri lavoratori dei campi (quasi un dispregiativo). Guaymallén è la regione in cui è nata. Tuttavia, come racconta lei stessa, c’è stato un momento della sua vita in cui questa vicinanza era da lei quasi rinnegata. Provava vergogna per il suo viso “troppo indigeno”, desiderando talvolta di essere diversa. Poi, tutto è cambiato: ha iniziato ad accettarsi per quella che era, esplorando al contempo la molteplicità di possibili che la fluidità di genere porta con sé. Fluidità che ha in realtà radici antichissime, risalenti ai miti indigeni del suo popolo.
La mostra di La Chola Poblete al MUDEC di Milano
Il molteplice è proprio la parola chiave con cui descrivere il progetto presentato al MUDEC, che offre un ampio scorcio – per buona parte inedito – della recente produzione di La Chola. Tre sono i corpus di lavori principali, distinguibili per medium utilizzato. Acquerelli di grandi dimensioni, fotografia e… pasta di pane.
Le maschere di pane di La Chola Poblete
Tutto parte dal pane. È una maschera di un morbido ocra brunito ad accogliere i visitatori all’inizio del percorso. E non è la sola: in tutte le sale, di tanto in tanto, fanno capolino altre analoghe sculture. Somigliano molto alle maschere tribali – chiaro riferimento alla cultura indigena – ma è il materiale ad attribuire loro il significato più profondo. Come già anticipato, tutte le opere organiche sono state realizzate nel laboratorio di panificazione di Davide Longoni (per scoprire di più sui retroscena di creazione, leggete questo articolo). La scelta della pasta di pane è ancora una volta legata al molteplice e all’imprevedibilità. Malgrado ogni volta lo stampo di ferro su cui viene steso l’impasto sia lo stesso, il risultato cambia ed è fuori dal controllo dell’uomo. È il lievito, il fuoco, la natura in generale, a determinare il risultato.
Le sculture antropomorfe di Pane di La Chola Poblete
L’apertura all’imprevedibile si associa anche a un altro dei maggiori protagonisti della mostra. La Venere marrone bruciata: un’interpretazione delle Veneri anatomiche di cera in uso tra 1500 e 1700, che mostravano agli studiosi le viscere meticolosamente definite. L’opera di La Chola – interamente fatta di pane steso su un’anima metallica – “espone” e “libera” i suoi organi di impasto intrecciato. Inquietante, ironica, ibrida. Lo stesso vale per la compagna: un’altra scultura antropomorfa di pane. Un busto femminile, privo – anzi “libero” anch’esso – di un corpo definito dall’ombelico in giù, circondato da una distesa di patatine fritte. Una sorta di divinità che collega tutte le sfere culturali dell’artista, dalla spiritualità indigena, alla cultura pop. La patata, un tempo rifiutata dai colonizzatori perché ritenuto “demoniaca”, è oggi un cibo consumistico per eccellenza del mondo occidentale. Ecco che l’opera assume un significato critico più profondo dell’apparenza.
Gli acquerelli di La Chola Poblete
Il secondo medium largamente utilizzato da La Chola sono gli acquerelli. Coloratissimi, multiformi, molteplici. Uniscono in grandi tele ogni tipo di simboli e riferimenti parte della storia e della sua vita: musica rock, religione, cibo, cultura, e brevi pensieri che affermano l’identità dell’artista, oggi orgogliosa e salda nel suo essere ciò che è. Corpi dai mille occhi, dalle (troppe) braccia e gambe, si alternano a riquadri camouflage, mostrando infiniti “possibili” di forma e di genere.
Le fotografie di La Chola Poblete
A chiudere il percorso espositivo, una serie di fotografie in cui l’artista fa da surreale protagonista. È in queste che emerge il lato più performativo e fisico della produzione di La Chola, che inscena situazioni assurde, satiriche ed eloquenti rispetto alla sua opinione su certi aspetti della società. Particolarmente tagliente è la critica simbolicamente allusa nei confronti del Mormoni. Verso il loro modo di praticare la religione, ma ancor più per le loro opere di colonizzazione che segnarono profondamente il passato della sua terra.
Emma Sedini
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