15 anni di musica elettronica e arti digitali. Il caso ROBOT Festival di Bologna
Tutta la storia dell’emblematica rassegna appena conclusa raccontata dal co-fondatore e direttore artistico Marco Ligurgo: una riflessione sui modelli di festival musicali
Un tempo città universitaria, “città libera”, come l’ha definita il cofondatore e direttore artistico di ROBOT Festival Marco Ligurgo ad Artribune, ora è territorio in trasformazione, in cerca di una nuova identità, sotto le spinte del turismo culturale. “Quando mi sono trasferito a Bologna nei primi Anni Novanta, era ‘the place to be’. La città dei centri sociali, dell’università, della musica, della street parade. Un contesto molto fertile per un pubblico giovane”. Le proposte non mancavano, tanto che nell’immaginario Bologna è diventata in questo modo un’icona.
Bologna nei primi Anni Duemila della gestione Cofferati
Bruciano ancora oggi gli anni in cui Sergio Cofferati, allora sindaco di Bologna, l’ha condotta verso la cosiddetta “società del controllo”, rendendo impraticabili tutte le spinte che provenivano dal basso e consegnandola a un futuro incerto. “Tutti i centri sociali vennero chiusi nei primi Duemila. La street parade venne abolita e molte restrizioni riguardarono anche i locali. Erano lontani i tempi in cui si andava al Link. Che oltre a un luogo di sperimentazione, era anche uno spazio multisala, dove si veniva a conoscenza di generi musicali diversi, con tutte le conseguenti ibridazioni, e ci si confrontava con l’alterità. Ed era anche lontana quella migrazione del weekend che portava in città migliaia di persone, provenienti da tutta Italia. Che l’indomani si ritrovavano a dormire nelle strade adiacenti alla stazione, dove erano localizzati i tre principali centri sociali (Link, Livello 57, TPO), in attesa del primo treno per tornare casa”.
Le basi per la nascita del ROBOT Festival di Bologna
In questo contesto mutato, e improvvisamente privo di opportunità, venivano poste le basi, in campo musicale, per una trasformazione radicale. Gli anni erano quelli dell’esplosione della minimal techno, in cui il dialogo con Berlino diventava imprescindibile. “Il venerdì ‘Playhouse’ al Kindergarten fu il passaggio più maturo di un’esperienza avviata alcuni anni prima dall’associazione Shape, che ci vedeva protagonisti della diffusione di un nuovo suono e di un nuovo modello di club minimali. Spazio completamente buio, niente più pr, tavoli e ballerine, che erano elementi tipici del modello precedente, che faceva capo alla Riviera. Centralità della musica e dj al centro della scena”. Al Kindergarten di Bologna cominciavano a suonare Richie Hawtin, Ricardo Villalobos, Marco Carola, che hanno inaugurato una nuova onda in Italia. Dalle ceneri di quell’esperienza, divenuta caso studio per tutta l’Italia e anche troppo popolare per continuare a essere portata avanti con lo spirito originario, è nato il ROBOT Festival.
La storia del ROBOT Festival di Bologna che guardava al Sónar di Barcellona
“All’inizio eravamo tutti dj e venivamo dal clubbing. Nella prima edizione del 2008 il peso del dancefloor era visibile per quantità e tipologia di nomi in line up. C’erano però già delle avvisaglie di altri scenari possibili. Innanzitutto, la presenza di una location straordinaria, divenuta nel tempo il nostro headquarter, che era Palazzo Re Enzo. Un palazzo medievale in pieno centro a Bologna. E poi i Pan Sonic, anche loro in line up, che erano più orientati alla musica sperimentale e a quel nuovo pubblico a cui volevamo rivolgerci”. In quegli anni, internazionalmente nei circuiti della musica elettronica e sperimentale, si guardava al Sónar di Barcellona, un modello di festival che cresceva molto rapidamente in dimensioni tenendo alta la qualità della proposta artistica.
ROBOT Festival di Bologna: in passato anche un main stage in fiera
Ma che, secondo Ligurgo, per loro si è rivelato, a un certo punto, troppo rischioso. “Qui non siamo a Milano, Roma e neanche a Torino. Bologna è una città in cui non si riescono a sviluppare relazioni con degli sponsor di alto profilo. Quando nel 2015, dopo anni di crescita organica, tentammo il grande salto, con un padiglione più grande in fiera, ci ritrovammo improvvisamente troppo esposti. 25mila persone nel weekend furono un traguardo importante, ma innescarono anche la consapevolezza di un cambio di rotta. Dopo alcuni anni di transizione, dove il Festival rischiò di finire, con un nuovo direttivo abbracciammo la direzione dell’’Unsound’. Ovvero di un festival diffuso in città, più di ricerca e con un giusto mix tra artisti emergenti e headliner. Obiettivo che si può raggiungere puntando su un forte brand e una fedele fanbase, anche internazionale”.
Il tema del ROBOT Festival 2024: Transition
Transition non a caso è stato il tema dell’edizione 2024 del festival, per una transizione che abbraccia molte direzioni, tutte da costruire e da reinventare. Non solo quindi quelle di genere, digitali e green che abbiamo affrontato in un talk con la straordinaria Lyra Pramuk, il cui live all’Oratorio di San Filippo Neri è stato sicuramente tra i più apprezzati del Festival. Dopo quello celestiale di Drew McDowall, all’interno di un’abside illuminata in maniera meravigliosamente drammatica. Seguendo stilisticamente una direzione più vicina al Rewire, (festival di musica sperimentale con base a L’Aia), che all’Unsound, tra i concerti ricordiamo anche quello di Maria W Horn & Mats Erlandsson, e di Marta Salogni & Francesco Fonassi, nella Chiesa di San Barbaziano. Decisamente più decadente e affine al concetto di rovina.
ROBOT Festival 2024: il report delle performance
Per quanto riguarda la location principale, il DumBo, tipica architettura post-industriale che ha fatto da scenario ai live più di richiamo, invece, citiamo il live di Christian Fennesz. Figura tra le più originali della musica elettronica contemporanea. E quello della percussionista Valentina Magaletti e della producer e dj afro- portoghese Nídia, che avevamo già incontrato all’Unsound pochi giorni prima. E che si è rivelato ancora una volta tra i più interessanti.
Carlotta Petracci
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