In funzione dell’età abbiamo avuto la nostra più o meno appagante spiegazione scolastica sul motivo per cui oggi sapiensè ormai homo empathicus e tecnologicus, e i dinosauri sono scomparsi, mentre invece l’estinzione è una sorte che non è toccata a pecore e giraffe.
Stiamo parlando di evoluzione e di propensione al cambiamento, secondo un paradigma di tipo adattivo.
Imprese culturali e tecnologie
Una questione che interessa da vicino chi vuole fare impresa, o meglio essere impresa, nel settore culturale e creativo, al di là della presenza di una norma che possa codificare un genere (si veda la Legge del 27 dicembre 2023, n. 206 recante le Disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del Made in Italy, che contiene agli artt. 24 e 25 la disciplina delle Imprese Culturali e Creative).
Un cambiamento significativo, ma forse sarebbe più corretto parlare di consapevolezza, è rappresentato dai pillar ESG: le imprese culturali si trovano a confrontarsi con indicatori e impatti ambientali, sociali e di governance.
La cosa interessante riguarda la storia e le radici della cultura che affondano da tempo nel solco delle dinamiche ES. Della G parleremo più avanti. Transizione ecologica e green deal sono in corso ma la cultura ha forse più da insegnare che da apprendere, se pensiamo al concetto di “museo diffuso” di paolucciana memoria, che teneva intimamente connessi gli artefatti e le emergenze architettoniche, artistiche, storiche, con l’ambiente e il paesaggio, andando a formare un continuum, un tutt’uno senza soluzione di continuità.
Imprese culturali creative ed ecologia
Certo, oggi le istanze verdi a cui le imprese culturali e creative sono chiamate a rispondere sono complesse: dal tema energivoro alla sostenibilità, dalle antinomie centri storici/periferie al fenomeno dell’overtourism.
Gli impatti sociali (S di social) della cultura sono quanto di più immediato abbiamo sotto gli occhi. La capacità di ridurre le disuguaglianze, di includere nei processi partecipativi, di apertura di prospettive, sono solo alcuni dei benefici effetti di cui sono portatori sani i luoghi della cultura con le loro attività. Mattone dopo mattone, senza soffrire di eventismo, con i suoi molteplici linguaggi, la cultura costruisce welfare e garantisce benessere per le persone e le comunità. Questo aspetto è chiaro anche ai legislatori europei che, dimenticandosi della C di cultural nell’agenda 2030, hanno pensato di correggere il tiro, affermando che l’assenza sottende in realtà una presenza trasversale della cultura, che attraversa e abbraccia tutti gli altri pillar.
Governance e sostenibilità
In altre parole, oggi, un’azienda profit che, non solo bontà sua, ma per suo vantaggio e valore, investe in cultura, rendiconterà nel suo bilancio di sostenibilità queste azioni dentro la S di social. Non è una risposta del tutto convincente, quella europea, però per ora la teniamola buona.
Arriviamo alla G di Governance. Senza troppi giri di parole, le imprese culturali e creative, e il terzo settore in generale, sono indietro. L’arrivo del codice del terzo settore, con i suoi innegabili ritardi nell’estensione dei decreti attuativi, ha innescato una riflessione più fiscale, che giuridica e strategica, in merito all’ingresso o meno nel Runts. È mancata da parte delle imprese (ancora), in effetti, una valutazione seria sulle prospettive di governance per la cultura che è centrale per ottenere una gestione sana, sostenibile e durevole. Tutto, o comunque molto, passa da una buona governance.
Su questo c’è ancora molto da fare, in primis creando una cultura della buona governance, perché gli strumenti (giuridici, fiscali, Runts, ecc.) vengono dopo aver elaborato un pensiero strategico. Soffriamo di presentismo, come mancanza di pianificazione e di visione, e i più colpevolizzano (in parte a ragione) gli erogatori di fondi (in genere pubblici) che sono puntualmente in ritardo. Bisogna però che il mondo della cultura recuperi un respiro di prospettiva, e con esso possa essere capace di attingere anche a risorse meno accessibili e canoniche, continuando ad essere se stesso nel cambiamento.
L’evoluzione della specie nelle politiche culturali
Faccia, insomma, quello che fecero le pecore e le giraffe. Le prime non avevano – secondo Darwin – le gambe corte come conosciute adesso, che l’evoluzione della specie tese ad accorciare per brucare meglio. Le seconde non avevano il collo lungo come quello ora riprodotto nei peluche dei bambini: le foglie degli alberi dove si trovavano non erano proprio facilmente accessibili alla loro altezza e così, giorno dopo giorno, compirono uno stiramento di pilates ante litteram alla loro cervicale.
I dinosauri, quelli sì, sono rimasti peluche.
Irene Sanesi
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