L’artista Gianni Politi invade la Triennale di Milano coi suoi ranocchi di bronzo
Si tratta di alcune delle opere protagoniste della mostra che Gianni Politi ha allestito nell’Impluvium della Triennale. Un’esperienza unica per il pubblico, a metà tra una cattedrale mistica e una favola gotica
Si presenta come un viaggio alla scoperta delle “costellazioni interiori” dell’artista. Un’esperienza mistica, onirica, che si muove tra immaginazione e sacralità. È questo lo spirito con cui il pubblico è invitato a vivere la mostra allestita nello spazio dell’Impluvium della Triennale di Milano. Il protagonista? L’artista contemporaneo Gianni Politi (Roma, 1986), che porta in scena una serie di lavori realizzati negli ultimi anni. Un connubio di astrazione cromatica, serie di ripetizioni credute infinite che qui paiono trovare una “fine”, e simpatici ranocchi che spuntano qua e là, facendo da spettatori o da ospiti inattesi.
Il progetto di Gianni Politi per la Triennale di Milano
Il complesso espositivo proposto alla Triennale, a cura di Damiano Gullì, è un’installazione site-specific, progettata per lo spazio già di per sé molto particolare dell’Impluvium. Grazie all’intervento dell’artista, l’ambiente si trasforma e acquisisce un’aura unica, che oscilla tra quello di una cattedrale e i cenni di un luogo fiabesco dai toni gotici, non troppo lontano da una radura in una foresta ombrosa. A dare questo effetto sono le panche disposte d’innanzi alle opere: elementi minimalisti, posti come di fronte ad altari illuminati in modo sommesso. L’effetto è davvero quello di una chiesa gotica, interrotto solo nel momento in cui si percepiscono curiose presenze: le ranocchie scure, che proiettano la loro ombra sul bianco delle pareti.
La fine della serie infinita di Gianni Politi alla Triennale di Milano
È una contraddizione, certo, ma pare essere anche la verità. Nel 2012, Politi diede vita “per caso” a questa serie. Rimasto affascinato dal volto di un dipinto ottocentesco di Gaetano Gandolfi che gli ricordava il volto del padre, cominciò a riprodurlo. E a riprodurlo, e a riprodurlo ancora. Una sequenza di formati e varianti che, nelle sue mire, sarebbe stata infinita. E per anni è stato così. Oggi però, nel contemplare l’enorme tela che raffigura un uomo barbuto dai connotati diabolici (I giorni del pentimento), se ne può forse intendere la fine. La fine di una ripetizione che è stata per l’artista una sorta di diario visivo in cui sperimentare. Osservandolo nella sua entità piuttosto ombrosa, sembra davvero di trovarsi a un confine liminale, a un’Apocalisse pittorica che traccia un punto di non ritorno. Attorno all’espressione buia dell’uomo ritratto galleggiano serpi e teste di diavoli. Sullo sfondo, un inquietante maniero proietta il pubblico in una favola divenuta all’improvviso gotica.
I dipinti astratti di Gianni Politi in mostra alla Triennale di Milano
A contornare la grande tela appena detta, figurano un gruppo di dipinti astratti, dalle macchie cromatiche intense. Come le vetrate colorate della cattedrale-Impluvium allestita per l’occasione. Sono i lavori cari alla poetica di Gianni Politi: assemblaggi di pezzi di tela già esistenti, che compongono i paesaggi – chiamati da lui “costellazioni”, come suggerisce il titolo della mostra – della sua interiorità.
A osservare da vicino, completandole, queste tele, vi sono cinque curiosi ranocchi di bronzo. Anfibi, dunque, che nel loro essere a metà tra terra e acqua, hanno insita in loro la duplicità. Il doppio: il confine tra bene e male, tra vita e morte. Un significato ambiguo, che si aggiunge alla favola macabra raccontata in questa mostra.
Emma Sedini
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