Il nuovo album dei Cure è una riflessione sul tempo e sull’opera d’arte
Il tempo secondo i Cure che dopo sedici anni escono con un nuovo album e che dà l’occasione di riflettere sui concetti di opera, stile, autore e linguaggio
And it all stops we were always sure that
We would never change and it all stops
Wе were always sure that wе
Would stay the same but it all stops
And we close our eyes to sleep
To dream a boy and girl
Who dream the world is nothing but a dream
THE CURE, ALONE (2024)
“I think it’s dark and it looks like rain,” you said
“And the wind is blowing
Like it’s the end of the world,” you said
“And it’s so cold, it’s like the cold if you were dead”
Then you smiled for a second
THE CURE, PLAINSONG
(DISINTEGRATION, 1989)
Time has told me
You’re a rare, rare find
A troubled cure
For a troubled mind
NICK DRAKE, TIME HAS TOLD ME
(FIVE LEAVES LEFT, 1969)
Il tempo scrive e viene scritto. Scrivere è il tempo. Scrivere con il tempo. (Scrivere il tempo.) Endsong, dal nuovo disco dei Cure, Songs of a Lost World (in uscita il 1° novembre): It’s all gone. Left alone with nothing. Nothing. Nothing. Scomparire. Estetica della sparizione: assenza di effetti speciali. Il tempo è l’amarezza.
La nostalgia è molto più articolata, e disarticolata, di come la si racconta. Il tempo è la nostalgia. Io che ricordo io. Io e il ricordo; io, il ricordo. (Io oggi + io ieri, i Cure oggi + i Cure ieri.)
Songs of a Lost World: una meditazione ampia sul tempo scomparso, su un mondo svanito. Perduto. I wonder what happened to that boy / and the world he called his own. La sparizione del contesto di riferimento.
Siamo alla fine, siamo nella fine: ma questa fine non è l’esaurimento, non è esaurita – se si sa come raccontarla (e cantarla). È materia per un intero nuovo mondo (morto) creativo. Paralizzato, congelato, assorto. Imploso. Vivo nella sparizione. Essere-presenti-scomparendo.
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Il nuovo album dei Cure
E così, 16 anni dopo 4:13 Dream, i Cure finalmente si ripresentano con un nuovo disco. Che avrà fattoRobert Smith in tutto questo tempo? Si sarà depresso, avrà letto e studiato?… Niente, ha lavorato come al solito, ovviamente. Ha continuato a suonare con il suo gruppo, ha fatto concerti, ha organizzato cose, si è dedicato a se stesso. Cose così.
Già il fatto di non aver sfornato l’ennesimo greatest hits o l’ennesimo live, come avrebbe fatto qualunque band di vecchie glorie, pone automaticamente su un altro piano questa rockstar riluttante… Ha sfornato l’album quando questo l’ha convinto; quando era pronto, quando ha sentito che era venuto proprio come lo voleva. Chapeau.
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Sguardi. Echi. Riflessi. Sovrapposizioni. Interferenze.
Il concetto di interferenza: il ricordo/nostalgia è un rumore, un’interferenza ci si sovrappone alla percezione dell’oggetto (opera) attuale. L’opera di oggi si porta appresso il ricordo/nostalgia di quella del passato. Questo avviene in: musica cinema letteratura moda design arte visiva.
Al tempo stesso, l’oggetto/opera/autore/stile/linguaggio originale (e con “originale” intendo: ciò che è stato fatto allora, nel punto spaziotemporale che di volta in volta diventa l’origine, possibile, del presente) viene modificato nella sostanza dall’interferenza dell’oggi, dell’oggetto/opera/autore/stile/linguaggio attuale.
I Cure: opera, stile, autore
Dunque, l’interferenza a ben guardare è doppia, biunivoca, a doppio senso. Ciò che è stato fatto nel passato non rimane immobile e immutabile, ma viene trasformato dalle interferenze successivi (dalle elaborazioni che vengono realizzate e ordinate dopo).
Classico: il classico, in questo senso, probabilmente è l’oggetto/opera che, per quante interferenze agiscano su di esso, non viene disturbato troppo da esse. È così ricco e denso e stratificato, di suo, che resiste agilmente alle influenze successive, e anzi le fagocita, le ingurgita, le ingloba al suo interno – senza sforzo apparente. Dimostrando così una certa impermeabilità alle influenze/interferenze, vale a dire una sorta di ottusità.
(Il capolavoro, così come l’artista di valore, non si fa cioè spostare facilmente dalle mode del momento). “Like I’m living at the edge of the world / Like I’m living at the edge of the world” (The Cure, Plainsong).
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Leggere invece i commenti sui social dopo la pubblicazione dei primi due singoli è spassoso quanto avvilente, come al solito. “C’è solo del mestiere”, “sono un gruppo stanco”, “onestamente deludente”. Ma Robert Smith è sempre stato stanco, deluso, depresso, amareggiato, cupo, anche quando aveva vent’anni – e su questa condizione ha costruito un corpus impressionante per coerenza e potenza, oltre che un intero movimento musicale e sottoculturale. È una vita che canta la fine del mondo, e della vita stessa. Fin dalla dichiarazione di intenti di One Hundred Years, con cui si apre Pornography (1982): “It doesn’t matter if we all die”.
E poi, esattamente dieci anni dopo, dopo la disintegrazione descritta ma non avverata di Disintegration(1989, la prima di un’intera serie…), ri-compare il tema della perdita e della scomparsa, it’s all gone: “If only you’d never speak to me / The way that you do / If only you’d never speak like that / It’s like listening to // A breaking heart, a fallin’ sky / Fire go out and friendships die / I wish you felt the way that I still do / The way that I still do // But you don’t / You don’t feel anymore / You don’t care anymore / It’s all gone / It’s all gone” (Cut, in Wish, 1992).
Il tempo secondo i Cure
Altri otto anni: “All that I have / All that I hold / All that is wrong / All that I feel for or trust in or love / All that is gone” (The Last Day of Summer, in Bloodflowers, 2000). Mentre compone il disco (l’ennesimo annunciato come ultimo, finale, terminale), Smith ha 39 anni, e a questa soglia simbolica e ‘dantesca’ (Nel mezzo del cammin di nostra vita) dedica ovviamente un’altra canzone lapidaria: “And the fire is almost dead and there’s nothing left to burn / I’ve finished everything / And all the things I promised, and all the things I tried / Yeah all the things I ever dreamed I used to feed the fire” (39, in Bloodflowers, 2000): già un quarto di secolo fa, c’è l’esaurimento totale – e finzionale, per nostra fortuna – delle risorse e delle scorte emotive; ma l’estinzione del fuoco è essa stessa un racconto che può andare avanti all’infinito. E vent’anni fa, in quell’altro manifesto che è Lost, c’era già il disorientamento, la perdita completa di riferimenti, la sparizione del proprio mondo culturale e del contesto di riferimento a cui assistiamo oggi (I don’t belong here anymore, in Endsong): “I can’t find myself / I can’t find myself / I can’t find myself / I can’t find myself” (Lost, in The Cure, 2004).
Come si vede, se uno è capace, anche un mondo finito e perso continua proprio per questo ad essere fonte costante di pensieri e di opere.
Christian Caliandro
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Christian Caliandro
Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…