A Milano c’è una mostra per riflettere sul colonialismo italiano tra critica del passato e comprensione del presente
È Jermay Michael Gabriel a presentare oltre trenta opere inedite per la sua prima personale in Italia da ArtNoble Gallery portando in scena e invertendo i paradigmi visivi che caratterizzano la memoria coloniale italiana
Prende il nome da un’espressione usata dalla voce fuoricampo dei documentari dell’Istituto Luce Cose Bizzarre – la prima personale in Italia dell’artista transdisciplinare italo-etio-eritreo Jermay Michael Gabriel (Addis Abeba, 1997), ospitata da ArtNoble Gallery a Milano – che ricorre per descrivere le case, gli oggetti, gli abiti, i rituali e le usanze dei popoli indigeni incontrati in Etiopia ed Eritrea dagli italiani, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Infatti, in programma dal 7 novembre 2024 al 31 gennaio 2025, la mostra presenta oltre trenta opere inedite che riflettono sull’archivio coloniale italiano invertendo (e criticando) i paradigmi visivi che, mutuati nel passato, continuano a caratterizzare la memoria del presente.
La mostra di Jermay Michael Gabriel da ArtNoble Gallery a Milano
La parola “bizzarro” ha un’accezione senza dubbio ambigua e storicamente ha rappresentato la stranezza e la stravaganza di un pensiero “selvaggio” e imprevedibile: “Le opere di Jermay Michael Gabriel affrontano questo timore esponendo un insieme di codici che mirano a trascendere i paradigmi della storia, rivelando invece una genealogia più universale, ma anche profondamente personale. Attraverso il loro gioco con l’assenza e la presenza, con la forma e l’essere-formato, con il fare e l’essere-fatto, le opere presentate in ‘Cose Bizzarre’ mostrano come la percezione sensoriale e la cognizione siano situate sia materialmente che storicamente, avventurandosi però a fornire informazioni sul futuro attraverso una comprensione critica del passato e del presente”, spiega la curatrice Elisa Giuliano. Per l’occasione abbiamo chiesto all’artista – tra le altre cose anche membro del duo musicale Plethor X (insieme al sound designer Giovanni Isgrò) e fondatore e direttore di BHMM (Black History Month Milano) e Kirykou (Milano) – di raccontarci in che modo la sua pratica artistica interviene sull’archivio per modificare un certo tipo di memoria coloniale.
L’intervista a Jermay Michael Gabriel
Si tratta della tua prima personale in Italia. La consideri un compendio della produzione realizzata finora o l’inizio di un nuovo percorso di ricerca?
Essendo la mia prima mostra personale ‘Cose Bizzarre’ rappresenta un’opportunità per consolidare le tematiche esplorate finora e allo stesso tempo per segnalare un’apertura verso nuovi orizzonti di ricerca. Ho realizzato 32 opere completamente inedite, concentrandomi sulla materia e sul suo potere di stratificare, raccontare, nascondere e rivelare. La materia stessa diventa un archivio del tempo, come un muro che, colpito dal salnitro e dalla corrosione, ricopre e distorce le tracce originali, rivelando al contempo l’accumulo della sua storia. Questa materia è per me ciò che in alchimia si definisce ‘materia prima’, la sostanza grezza e primordiale da cui scaturisce la creazione. Allo stesso modo, le opere che presento si caricano di significato attraverso gli strati di segni e tracce, come i muri che ospitano le prime pitture rupestri. L’astrazione dei segni non è solo un processo formale ma anche fenomenologico, un invito a varcare il velo delle apparenze per scoprire ciò che si cela oltre.
Da artista transdisciplinare, come scegli il medium per ogni opera? Cosa presenterai in occasione di “Cose Bizzarre”?
Il medium è per me una scelta che si attua in risposta alla necessità espressiva del momento. Ogni opera richiede un linguaggio specifico, sia questo pittura, scultura, o fotografia, per dare corpo a un’idea. Per la mostra ho creato opere in cui la materia è al centro della narrazione, evocando un processo di stratificazione che intrappola e distorce il tempo. In questo senso, la materia agisce come un archivio coloniale che porta alla superficie elementi riconoscibili – piante, persone, corpi, volti – inscritti come memorie fossilizzate in un paesaggio allucinato. Queste immagini sono costruite per riflettere la natura stessa della memoria coloniale, dove il ricordo e il tempo si mescolano e si confondono, lasciando all’osservatore il compito di decifrare significati che si celano dietro la superficie visibile.
Che ruolo ha la ricerca d’archivio nel tuo lavoro?
Questa riflessione sul ruolo dell’archivio nella costruzione della memoria è centrale nel mio lavoro. L’archivio si propone come l’elemento che permette di ‘geolocalizzare’ l’intento artistico, se così si può dire, ovvero di collocarlo nello spazio della memoria collettiva e individuale. In mostra questa funzione dell’archivio si riflette in particolare modo nell’uso della fotografia, che occupa un ruolo cruciale come garante di memoria, capace di trasmettere una forma di apparente oggettività. La fotografia, infatti, è generalmente intesa come documento, un mezzo per fissare un momento di realtà, per catturare e preservare un frammento di passato. Diventa quindi un simbolo di verità e autenticità, caricandosi di una funzione testimoniale che trascende il singolo soggetto o evento.
Progetti futuri, prossime mostre…
Sono attualmente impegnato in nuovi progetti che proseguiranno l’esplorazione dell’intersezione tra arte, memoria e materia. Per ora niente in programma, se non un viaggio di ricerca in Etiopia.
Caterina Angelucci
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