La quarta stagione della serie tv Emily in Paris è uscita recentemente su Netflix. Gli outfit sono alla base del successo di questo prodotto, che intrattiene servendosi di leggerezza e di abbinamenti ben studiati, oltre che griffati. Spesso bizzarri e perciò intriganti per lo spettatore che poi li commenta sul web o fa di tutto per imitarli. Parte così un circolo vizioso di interessamento nei confronti della vita del personaggio principale, Emily, social media manager americana presso un’agenzia di comunicazione parigina, interpretata da Lily Collins con tutti gli stereotipi che ne derivano. La serie televisiva, quindi, fotografa il sistema moda, semplificandolo per intrattenere gli appassionati del settore. Nella nuova stagione però la narrazione si è spinta ben oltre, cogliendo alcuni aspetti fondamentali che stanno a cuore soprattutto a Millennials e Generazione Zeta. Infatti, questo è il perfetto esempio di come la moda non perda occasione per dimostrare il suo impegno sociale, fuori e dentro lo schermo. Di cosa stiamo parlando? Anche se forse in pochi lo avranno notato, grazie all’indiscutibile spirito ironico della serie, nel corso della quarta stagione numerose tematiche sociali hanno rappresentato una parte fondamentale per la riuscita della trama stessa ma non solo. È stato possibile vedere anche come nella vita reale certe questioni possono danneggiare l’immagine pubblica di una persona o mettere in discussione realtà ben affermate all’interno del sistema. Il tutto prende proprio inizio dal rapporto assiduo di Emily con la piattaforma social Instagram, strumento che però stavolta finirà per giocare a suo sfavore sia sul lavoro che sulla sua vita privata. A seguire, personaggi in secondo piano come Mindy (migliore amica di Emily) e Louis de Leon (fondatore della JVMA, compagnia specializzata in beni di lusso) hanno coperto un ruolo fondamentale nel trasformare Emily in Paris da semplice manifesto del sistema moda ad un potente mezzo di discussione sociale. Ma vediamo come questo è avvenuto di puntata in puntata.
Emily in Paris: diffamazione mediatica
Già il primo episodio si apre con un evento chiave: Emily è vittima di diffamazione mediatica. Su Instagram, social media preferito della protagonista, è diventato virale un video che muove accuse nei suoi confronti riguardo la fine del rapporto tra Camille e Gabriel, rispettivamente amica ed ex fidanzato di Emily. Questo fenomeno provoca un effetto a catena all’interno della serie: dal rovinare la relazione attuale di Emily finisce per ripercuotersi anche sugli affari dell’Agence Grateau per cui lei stessa lavora. Non c’è nulla di diverso rispetto a quello che oggi subiscono coloro che costruiscono la fama di un profilo social condividendo la propria vita privata sui social, come Emily nella serie. Ultimamente, la stessa Chiara Ferragni ha dovuto pagare caro un errore da lei commesso nello svolgimento delle sue campagne commerciali. A seguito di questa tipologia di accaduti, sono gli stessi influencer a normalizzare e condividere con il proprio pubblico le fragilità che possono generare a livello umano. Come superarlo? Nel caso di Emily, ci si focalizza sul lavoro e si lascia che la fiamma mediatica arrivi a spegnersi da sé.
Emily in Paris: body shaming e second-hand
Dall’altro lato, c’è la migliore amica della protagonista, Mindy. Questa volta la tematica affrontata è quella del body shaming, citata da lei stessa all’interno della serie. Il suo fidanzato, avendo ricevuto giudizi negativi da parte del padre sullo stile di Mindy (troppo volgare per i suoi gusti), decide di regalarle un abito di haute couture affinché possa essere presentabile ad un evento della compagnia miliardaria di famiglia. Ad oggi, è diventato di fondamentale importanza battersi per poter indossare ciò che esprime meglio la propria personalità, e riuscire ad accettare il proprio corpo a discapito del giudizio degli altri. Nella serie televisiva, Mindy conviene con questa ideologia e decide di vendere l’abito presso Vestiaire Collective. Anche quest’ultimo rappresenta l’ennesimo riferimento della serie a tematiche di estrema importanza sociale, ovvero il second-hand.
Emily in Paris: abusi in cambio di scalate professionali
Infine, gli abusi fisici in cambio di promozioni di carriera. Nell’ultimo anno, moltissime sono state le donne vittime di questi trattamenti che hanno deciso di smascherare i colpevoli, spesso identificati in uomini di importante rilievo all’interno dei rispettivi settori economici di appartenenza. Nel caso della serie, è Sylvie (capo dall’agenzia per cui lavora Emily) a denunciare un uomo molto potente all’interno dell’industria della moda a Parigi. Stiamo parlando di Louis de Leon, fittizio fondatore della compagnia JVMA specializzata in beni di lusso, il quale invitava le sue dipendenti all’interno dell’ampio e prezioso showroom aziendale per approfittare di loro. Non è un segreto la difficoltà di fare carriera in un settore come quello della moda, mentre è d’ammirare il coraggio di donne come Sylvie. Anche se esplorate con sottigliezza, queste tematiche hanno arricchito la trama fino a divenire parte integrante del meccanismo che aumenta la curiosità degli spettatori. Guardate con attenzione, si distinguono dal resto della serie tv, rappresentando un chiaro messaggio di integrazione con l’ideologia sociale.
La moda “giusta” esiste veramente?
In Emily in Paris, dove tutto gira intorno alla moda, sembra che quest’ultima entità si presenti come musa del progressismo e dei valori sociali odierni. Eppure, nonostante questo suo essere socialmente attiva su moltissimi fronti, non viene meno la presenza dei controsensi. Una connessione immediata tra la serie e la realtà del sistema moda è proprio il tema del second-hand. Le aziende stesse aderiscono sempre più aprendo boutique direzionali di abbigliamento usato. La prima ad implementare il modello di business del second hand è stata Patagonia con il lancio del programma Worn Wear nel 2013, acquisendo il ruolo di pioniera nelle pratiche di moda sostenibile. Questo programma permette ai clienti di restituire i propri capi usati per essere poi riparati e rivenduti, limitando sprechi ed eccessiva produzione. Dopo, altri grandi nomi come Gucci e Burberry hanno progettato importanti iniziative per inserirsi in questa nuova e promettente fascia di mercato. Entrambi hanno sviluppato una partnership innovativa con The RealReal, una delle piattaforme più importanti per la rivendita di beni di lusso usati, e definito il progetto Gucci Equilibrium promuovendo il riutilizzo dei prodotti e una Responsibility Agenda per Burberry, dove stilare i suoi obiettivi sostenibili da raggiungere.
I paradossi della moda
Invece, molti altri brand definiscono il loro impegno nel second-hand o sulla diminuzione dei loro impatti ambientali come sostenibile, quando in realtà l’obiettivo finale è di natura commerciale. Proprio attraverso queste operazioni di mercato, i brand ottengono una maggiore fidelizzazione del cliente e catturano un pubblico che altrimenti non avrebbe potuto permettersi i loro capi a prezzo pieno. Ancora più importante, il tutto avviene senza cannibalizzare il proprio mercato d’azione primario. Dunque, ciò che emerge è soltanto il primo strato di un fenomeno ben articolato: il paradosso della moda giusta. Durante la trattazione delle nuove regolamentazioni che i brand dovranno rispettare nell’anno a venire in materia di sostenibilità, il report The State of Fashion 2024, redatto da BOF e McKinsey, dimostra quanto il problema sia radicato in ogni fase produttiva della filiera, riportando fino all’80% dell’impatto ambientale di un prodotto all’interno della fase di progettazione a causa della scelta dei materiali e delle tinture utilizzate. Di conseguenza, i brand dovrebbero intraprendere iniziative sostenibili reali non solo nel second-hand ma anche in maniera efficace in ogni fase della produzione, così da diminuire le contraddizioni e incongruenze che governano l’industria.
La realtà del sistema moda
Viene lecito domandarsi se sia solo una teoria, quella della moda giusta, adatta come nel caso di Emily per prodotti televisivi di massa e non una pratica fattibile. Infatti, un altro tema caldo all’interno del settore riguarda le Diversity & Inclusion Policy dei brand. Già da molti anni la questione sulla diversità e inclusione nel sistema moda ha guadagnato rilevanza, sia sulle passerelle sia nelle pratiche aziendali. Ma secondo un’approfondita analisi condotta dal MBS Group insieme al British Fashion Council nel 2022 all’interno dell’industria della moda, è emerso che solo il 51% ha coordinato strategie D&I mentre una forte carenza è stata registrata nella determinazione di obiettivi specifici e nello stanziamento di budget per la rappresentanza dei gruppi di minoranza. Come riportato dal Vogue Business Inclusivity Report, i fashion shows della Spring/Summer 2025 hanno evidenziato un significativo declino nell’inclusività delle taglie, con solo un 0,8% per le modelle plus-size e un 4,3% per la categoria di taglia media. Il 94,4% infatti rappresentava lo standard di magrezza estrema. Per quanto riguarda la diversità etnica, il report ha registrato che il 43% delle modelle era non bianco, marcando un significativo progresso rispetto agli anni precedenti. A questi dati reali, si oppongono grandi eventi di rivalsa come il Victoria’s Secret Fashion Show appena avvenuto, il quale era stato sospeso per sei lunghi anni dopo che nel 2018 erano state mosse importanti accuse riguardo il suo casting decisamente poco inclusivo. Oggi il brand di lingerie torna con il desiderio di raggiungere un nuovo posizionamento di mercato, il cui codice è adattarsi ad ogni colore della pelle e forma fisica. Ma questo non basta per trarre conclusioni sull’effettiva volontà dei brand di essere parte di una moda giusta, la quale se esiste possiede molti più valori di quelli sopracitati. Spesso le aziende si limitano ad iniziative di facciata senza un vero impatto sulla cultura aziendale, confondendo quindi chi le osserva sulla natura della loro scelta: commerciale o impegno autentico?
Giulia Bracaloni
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