Il Salone del Mobile a Milano tra arte e design. Intervista a Maria Porro
Nel bel mezzo della tournée cinese della fiera di design più importante del mondo, abbiamo intervistato la sua presidente. Con lei abbiamo parlato del rapporto tra arte e cultura del progetto e dell’evoluzione del Salone. Ma anche di gender gap e strategie per contrastarlo
“Quando il design incontra l’arte” è il titolo di un talk tra diverse personalità provenienti da questi due ambiti che ha aperto la trasferta cinese del Salone del Mobile di Milano modulata in due tappe tra Shanghai e Hong Kong. Le iniziative, un’installazione performativa dell’artista Matilde Cassani e una mostra dedicata alla collezione permanente del SaloneSatellite, l’osservatorio sui talenti under 35, sono state organizzate in luoghi deputati all’arte come il West Bund Orbit – il centro culturale a forma di vortice firmato da Heatherwick Studio – nel cuore della locale Art Week per Shanghai e l’Arts Pavillion del distretto culturale di West Kowloon per Hong Kong. In effetti, se arte e design sono discipline contigue e vanno da sempre a braccetto, il binomio sembra ancora più saldo dall’arrivo alle redini del Salone della prima presidente donna, Maria Porro (1983), che di ricerca estetica se ne intende. Prima di entrare nell’omonima azienda di famiglia, infatti, ha frequentato per un decennio i mondi del teatro e dei grandi eventi artistici lavorando come scenografa e curatrice.
Intervista a Maria Porro
Sul suo curriculum c’è una laurea in scenografia all’Accademia di Brera, la stessa di Enzo Mari. Che rapporto ha con l’arte?
Sono cresciuta nel mondo della cultura del progetto, in una famiglia di architetti e con un nonno maestro d’arte, e ho avuto la fortuna di passare tanti fine settimana della mia infanzia in giro per l’Italia a vedere mostre o architetture. Dopo il liceo scientifico ho scelto l’accademia di Brera e il corso di scenografia perché riuniva un po’ tutte le mie passioni: il design, la letteratura, la musica, le arti performative e la magia del teatro, la stessa che sanno trasmettere i luoghi quando sono ben progettati. In generale, trovo tante assonanze tra i miei studi e i dieci anni che ho passato fuori dall’azienda di famiglia e il mio lavoro di oggi. Penso comunque che questi due mondi, l’arte e il design, abbiano sempre dialogato in maniera forte. L’arte, per esempio, ha sempre avuto un ruolo importante nelle residenze private. L’arredo è stato a lungo considerato un’arte minore ma ci sono musei come il Victoria & Albert di Londra in cui ha la stessa dignità dell’arte con la “a” maiuscola.
Oggi è diventato ancora più difficile tracciare una linea netta e dire che cosa è arte e che cosa è design.
Il design è legato a un’idea di produzione industriale secondo me molto nobile, il fatto di rendere accessibile a un pubblico vasto oggetti che, nei casi più illuminati, hanno una valenza diversa rispetto alla pura funzione. Però si tratta di mondi estremamente interconnessi: l’industria genera valore aggiunto e ricchezza che poi permette anche all’arte di svilupparsi. Ci sono inoltre ricerche e innovazioni che sono nate per esigenze di sviluppo industriale e poi sono state “ridigerite” dagli artisti, pensiamo per esempio ai Led e al loro uso nell’arte contemporanea.
In Cina siete andati a cercare questi pubblici agganciandovi a eventi come l’Art week di Shanghai. Come è nata l’idea? Vado spesso in Cina e l’anno scorso sono stata a Shanghai proprio durante la settimana dell’arte. In quel momento stavamo studiando un format che permettesse di accendere ancora una volta i riflettori sul design italiano contraendo però l’investimento da parte delle aziende. La Cina, in questo momento, è in grande difficoltà, vista anche la crisi immobiliare che sta vivendo, però dopo aver aiutato le aziende a costruire una rete commerciale nel paese con le quattro edizioni del Salone a Shanghai non potevamo abbandonare i rivenditori a loro stessi. È stata la West Bund Art & Design a proporci una partnership e ci è sembrata una finestra molto interessante nel calendario, per la qualità dei visitatori e la visibilità che poteva garantire alle aziende ma anche per una questione di posizionamento “alto” dell’industria del design italiano. Stare insieme all’arte significa condividerne il valore e la qualità. Anche l’artista con cui abbiamo lavorato, Matilde Cassani, sta in equilibrio su quel confine che non si vede tra arte e design.
Si vocifera di una campagna fotografica in preparazione per la prossima edizione del Salone, è così?
Sì, non possiamo svelare molto adesso però ci sarà una campagna pubblicitaria fotografica e per la prima volta avrà come protagonista il corpo umano. Dopo aver lavorato con l’intelligenza artificiale, lo scorso anno, abbiamo deciso di rischiare usando un medium nuovo che non lascia scampo perché ritrae il vero e di raccontare il rapporto del corpo umano con i materiali, le superfici e le funzioni. L’oggetto di design, a differenza della maggior parte delle opere d’arte, ha una relazione immediata e fisica con chi lo possiede. Esplorare questo tema ci è sembrato interessante, anche per ricordarci il ruolo umile e allo stesso tempo nobile del design nel nostro quotidiano.
Il nuovo Salone del Mobile
In questi ultimi anni, con il ripensamento del layout del Salone, avete portato in fiera diverse proposte culturali, mostre e installazioni che prima venivano organizzate soltanto in città. Qual era l’intento?
Non abbiamo cercato di portare Milano in fiera ma più che altro di sottolineare come l’industria del design sia profondamente legata a una dimensione di progettualità e di cultura che va al di là della dimensione industriale e di business. Ecco perché abbiamo esposto, per esempio, i prototipi di Nanda Vigo e alcuni disegni originali di Gae Aulenti. Sappiamo che chi visita ha bisogno di momenti di pausa, di rinfrescare gli occhi e la mente per poi poter essere più produttivo, e ci è sembrato intelligente creare degli spazi in cui raccontare il valore della cultura del progetto: il ruolo della luce attraverso una mostra fotografica o il fatto che esiste un altro modo di guardare al design degli interni attraverso lo sguardo di un regista come David Lynch…Questo però non è un divertissement fine a se stesso, deve produrre dei risultati. L’anno scorso nel padiglione del bagno c’era un’installazione dedicata al tema del consumo idrico e tutte le aziende espositrici hanno firmato un protocollo per ridurlo.
Nel frattempo, il business si fa sempre di più anche in città, negli showroom delle aziende. Vede il Fuorisalone più come un alleato o come un competitor?
Sono due cose molto diverse. Il Salone è prima di tutto un acceleratore di business, una piattaforma che dà a chi vi partecipa una grande visibilità che non è legata tanto alla capacità economica quanto a un sistema valoriale. Il visitatore sa di poter vedere un certo numero di aziende selezionate con una curatela e messe in condizione di poter competere su un terreno che è lo stesso per tutti, lo stand può essere più grande o più piccolo ma partiamo tutti da un padiglione vuoto e da un pavimento di cemento. In fiera si vede un’idea di abitare. Il Fuorisalone – e lo dice un’imprenditrice che lo fa da quando è nato e ha un negozio in centro città – fa e deve continuare a fare un’altra cosa.
Cioè?
Ci sono i negozi di arredamento, le installazioni proposte dall’extrasettore, da tutto un mondo che non è arredo ma trova il design interessante e vuole dire la sua, i musei e le istituzioni che hanno un ruolo imprescindibile per il loro sguardo critico sul passato. La città è una grandissima alleata anche nel gestire al meglio anche dal punto di vista dell’ospitalità le persone che vengono in città in quei giorni – e sono tante, tra il 2023 e il 2024 c’è stato un aumento del 28%! Milano è quasi una metropoli in formato mignon e questo la rende molto piacevole da vivere, è importante che i servizi vadano di pari passo.
Parliamo del ruolo delle donne nel sistema design. Metto le mani avanti: è senz’altro una domanda scontata nel momento in cui viene rivolta a una donna che occupa una posizione apicale in un mondo di uomini, però lei ha avuto da subito un’attenzione particolare per questi temi. Ed è innegabile che si sia fatta molta strada in termini di consapevolezza dal 2019, quando nella foto del taglio del nastro di inaugurazione del Salone venne immortalato un gruppo di soli uomini.
In realtà le donne nel design e nel Salone ci sono sempre state. Pensiamo a Marva Griffin che però, chissà perché, non fu coinvolta in quella foto. Sappiamo per quanta fatica abbia fatto, per esempio, Charlotte Perriand a convincere Le Corbusier e gli uomini importanti del suo tempo della bontà delle sue idee. A volte i progetti venivano firmati dagli uomini, oppure le mogli avevano un ruolo fondamentale che non veniva riconosciuto. C’è un problema culturale e di conoscenza che i musei e le istituzioni come il Salone stanno cercando di colmare.
A che punto siamo?
Credo che la mia generazione sia quella che per la prima volta ha davvero la possibilità di accedere a cariche importanti, nel passaggio generazionale c’è anche per le donne la possibilità di entrare in azienda che prima non era scontata. Vedo un momento in cui le cose stanno cambiando, ma per risolvere i problemi bisogna prima vederli. Ci sono tante questioni da risolvere che necessitano di un intervento politico e altre che invece passano attraverso le nostre scelte.
Per esempio?
Tutto ciò che riguarda il gap salariale. Ci sono dei progetti di Confindustria su questo tema ai quali anche la mia azienda sta partecipando. Da noi, poi, la fabbrica smette di lavorare alle quattro del pomeriggio in modo che i dipendenti che lavorano in produzione, che sono per la maggior parte uomini, possano andare a prendere i figli a scuola, mentre negli uffici abbiamo orari flessibili. Perché per accedere a certi ruoli bisogna anche averne la possibilità: io mi considero privilegiata avendo una rete familiare e disponibilità economiche ma non è così per tutte.
Giulia Marani
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