Dubuffet e l’Art Brut. L’arte degli outsider al Museo delle Culture di Milano 

Forse l’ispirazione è solo un urlo / confuso, scriveva Sandro Penna. Una mostra a Milano, a cura di Sarah Lombardi e Anic Zanzi, mette in scena le opere di Jean Dubuffet e degli artisti outsider della sua collezione

“Tutti sono pittori”. Questa dichiarazione provocatoria di Jean Dubuffet potrebbe fare da manifesto al concetto di Art Brut, coniato dall’artista francese nel 1945 per promuovere la sua idea di un’arte totalmente libera da schemi culturali e pratiche accademiche. L’arte degli “outsider”, ricercati per decenni ai margini della società, tra istituti psichiatrici e centri di cura, fino a crearne una straordinaria collezione. 

La mostra di Dubuffet al Mudec 

Non sono molte le opere di Jean Dubuffet (Le Havre, 1901-Parigi, 1985) esposte nella mostra a lui dedicata tra le sale del Mudec di Milano, ma utili a mettere a fuoco la carriera di un pittore, scultore, musicista, scrittore, che per tutta la vita ha cullato l’idea di una creazione libera, per quanto possibile, dalle tradizioni e dalle mode, dalle doghe della cultura accademica. Con un approccio sprezzante, a tratti ironico e sempre radicale ai diversi bacini figurativi e culturali a cui attinge, che sia il Romanico tanto caro all’imperante cultura picassiana o l’arte extraeuropea, africana o precolombiana, osannata da tutte le avanguardie storiche. Dai disegni e dipinti volutamente infantili degli Anni Quaranta (Arabe à la rose, 1948) a lavori come Le Géologe (1950), che apre a ricerche in cui si superano i confini tra formale e informale, tra i materiali della creazione artistica.  

Le opere di Dubuffet in mostra 

Fino a capolavori come Texturologie VII (1957) o Les Fleurs du Sol (1960), quasi inquadrature satellitari di suoli alieni, foriere degli sviluppi di tante esperienze artistiche. E il colore che irrompe nei dipinti e nei disegni degli Anni Sessanta, come Chaussé d’Antin (1962), o più maturi (Site populeux, 1982), a preannunciare e poi seguire da vicino l’evolversi del graffitismo.  

In testa un’idea piuttosto precisa di un’arte ‘nuova’, che lo stesso Dubuffet battezza nel 1945 con la fortunata etichetta di Art Brut, sotto la quale raccoglie quelle espressioni artistiche che viaggiano al di fuori di qualunque schema culturale preconcetto, delle pratiche accademiche, di promozione e commercio. Arte ‘primitiva’ più che in senso antropologico, nel senso di ‘innata’. Bisogno primario di espressione dei sentimenti fondanti l’animo umano che Dubuffet vede fiorire spontaneamente in soggetti spesso recuperati ai margini della società, alienati e malati mentali ospitati in centri psichiatrici che usano gli strumenti e i materiali più disparati per creare, da totali autodidatti in opere che sembrano manifestazioni immediate del loro stato interiore.  

Chi era Jean Dubuffet 

Nello stesso 1945 Dubuffet comincia a raccogliere queste opere creando una collezione con migliaia di pezzi – che nel tempo serviranno sempre da ispirazione e guida per la propria sfera creativa – donati nel 1970 alla città di Losanna e che dal 1976 costituiscono il nucleo fondante della Collection de l’Art Brut aperta nella cittadina svizzera con l’impegno dello stesso Dubuffet. Da qui provengono le opere presentate in mostra di artisti più o meno noti del panorama dell’Art Brut, che, per essere tale, “ignora totalmente i circuiti culturali e che da questi è totalmente ignorata”, come scrisse il suo fondatore per scongiurare fraintendimenti e il rischio di farne un movimento tra gli altri, nel secolo in cui il concetto di arte è messo definitivamente in crisi su più fronti.  

 

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La Collection de l’Art Brut di Dubuffet 

Per questo Dubuffet era restio nel mostrare in pubblico le opere della sua collezione, di questi artisti ‘della spontaneità’, che incantano fin dalle biografie. Aloïse Corbaz (1886-1964), nata a Losanna, sogna di fare la cantante e finisce a lavorare come insegnante e governatrice alla corte di Guglielmo II di Germania, sviluppando un’ossessione per il Kaiser che la porta alla schizofrenia e al ricovero nel 1918 in un ospedale psichiatrico. Da qui riempie fogli e fogli con disegni di donne voluttuose che si concedono ad amanti in uniforme militare, continuando evidentemente a vivere la sua storia d’amore immaginaria. Oppure Adolf Wölfli (1864-1930), che dopo un’infanzia e un’adolescenza terribili, tra maltrattamenti, privazioni e violenze di ogni genere, viene internato in un manicomio vicino Berna, cominciando a disegnare, scrivere, addirittura comporre musica in maniera compulsiva, attirando l’attenzione di Freud e André Breton, che lo prende a esempio per i suoi studi sui rapporti tra malattia mentale ed espressione creativa.  

Gli artisti dell’Art Brut 

Ciò che stupisce nelle opere di questi personaggi è un generale senso innato, e commovente, per il colore, la simmetria, la composizione. Quanto all’essere le loro creazioni totalmente libere dalle tradizioni, anche figurative, come avrebbe preteso Dubuffet, questo proprio non si può. Le forme del passato sono assimilate in noi, sedimentate dalla storia che ci attraversa. Chissà da dove arrivano i rimandi alle decorazioni indù e orientaleggianti che tramano le fittissime tele di Augustine Lesage (1876-1954). Un minatore francese che a 35 anni, nel buio pesto della miniera sente una voce preannunciargli la futura carriera da pittore, e avvia una frenetica attività guidato, così dice, dallo spirito della sorellina morta a 3 anni di età. Molti di questi artisti si dedicano a pratiche spiritiche. Dichiarano di rispondere a delle voci, di vivi o di morti, che li incitano a disegnare, dipingere, scrivere… “Forse l’ispirazione è solo un urlo / confuso”, recita una lucida poesia di Sandro Penna. C’è chi lo sa ascoltare, poi ognuno lo interpreta a modo suo. 

Stefano Bruzzese 

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