Vittorio Marella, il giovane pittore che “viveva” al Padiglione Venezia della Biennale
Uno straniero nella sua città: così si sente Vittorio Marella, giovane pittore veneziano che ha esposto i suoi dipinti nel Padiglione Venezia dell’ultima Biennale Arte. Ne parliamo con lui
Esiste una Biennale prima della Biennale. Una Biennale-luogo, antecedente alla Biennale-evento. Prima che le maschere si avviino trascinando i piedi verso il pubblico in fremente attesa, accalcato davanti ai cancelli, prima che inizino a raccogliere ad uno ad uno i biglietti dalle mani tese, a passarli sotto i lettori dei codici a barre, alzando gli occhi di tanto in tanto per lanciare uno sguardo sconfortato alla fine della fila che non sembra affinarsi ma anzi pare farsi sempre più grossa ed ingorda, tra i viali dei Giardini regna il silenzio. Da dicembre, quando gli artisti vengono a disallestire le loro opere, a marzo, quando iniziano ad arrivare i primi pezzi che daranno vita all’esposizione successiva, i viali dietro la recinzione di ferro che corre parallela al Canale di San Marco restano nascosti, un luogo inaccessibile dove il silenzio è reso ancora più assordante dall’eco dei fasti andati, e da quelli che verranno. I passanti spiano i padiglioni bui dalla fondamenta, i bambini incollano il viso tra le sbarre, fantasticando su questo mondo di piccoli castelli ombrosi, ed i veneziani, passando in barca per Rio dei giardini, borbottano sottovoce. Se uno dei naviganti avesse alzato lo sguardo, avrebbe scorto una figura affrettarsi su e giù per il ponte che porta al Padiglione Venezia, pennelli sotto braccio: Vittorio Marella (Venezia, 1997). Proprio in questo padiglione all’interno dei Giardini, il giovanissimo Marella ha esposto le sue opere durante la Biennale Arte 2024 (al fianco di Pietro Ruffo, Franco Arminio e Safet Zec) e, per qualche tempo, vi ha proprio vissuto. Ne parliamo con lui.
Intervista a Vittorio Marella
Ultimamente si è parlato molto del Padiglione Venezia, soprattutto grazie alla lettera aperta che l’associazione Venezia C’è ha scritto alle istituzioni. Che idea avevi del Padiglione Venezia?
Non avevo un’idea precisa del Padiglione Venezia, se non un vago ricordo di quando ero bambino. Avevo un’idea della Biennale: l’idea di un posto in cui avrei potuto fare qualsiasi cosa, dove le possibilità sarebbero state infinite. Lavorare al Padiglione Venezia è stata una delle esperienze più belle della mia vita, sia in termini di ambiente fisico, sia in termini di atmosfera lavorativa. Riguardo al dibattito aperto da Venezia c’è, penso che sia un segnale positivo. Sono stato molto felice di essere selezionato per esporre nel Padiglione, perché spero, tramite il mio lavoro, di aver passato il messaggio di una città che resiste e che è viva. Il fatto che adesso ci sia questa discussione non è che una conferma del fermento della città, che spero si concretizzi in possibilità sempre migliori per gli artisti locali.
Come hai affrontato il tema proposto da Adriano Pedrosa, Stranieri Ovunque?
Inizialmente ho pensato “Stranieri Ovunque? Io sono veneziano, espongo al Padiglione Venezia, sono la persona più sbagliata per questo tema”. Poi ho capito che forse ero la più giusta. Ho sempre fatto fatica a trovare persone con cui sento di avere una connessione profonda. Il tema di Pedrosa è stato molto liberatorio per me, perché ho provato che gli stranieri sono veramente ovunque, anche nella loro stessa casa. La curatrice del Padiglione Venezia, Giovanna Zabotti, ha battezzato l’esposizione “Sestante Domestico”, facendoci riflettere sul concetto di stranieri in senso lato, ovvero: siamo tutti stranieri finché non troviamo un posto che per noi è casa. Mi sono chiesto: quando ho smesso di sentirmi uno straniero? Mi sono reso conto che questa sensazione di incompletezza si è attenuata quando ho incontrato una persona, la mia ragazza: la casa è diventata un luogo emotivo, e non più fisico. Non ho più pensato in termini di Venezia, città, ma ho pensato in termini del mio posto nel mondo e nella vita.
Vittorio Marella e il Padiglione Venezia
Nel quadro che hai esposto alla Biennale, Under the Weight of a Heavy Sun, si ritrovano entrambi i filoni…
Sì. Ho rappresentato il mio posto preferito: la duna che si costruisce per proteggere le capanne del Lido d’inverno, che nel quadro protegge due figure che si stringono l’un l’altra. Le persone nel mio quadro sono una metafora, rappresentano l’umanità, che nella tragedia si abbraccia e cerca di volersi bene. La tragedia è nel fatto che non c’è nulla intorno a loro, il loro mondo appare arido. Eppure per rappresentare questo mondo desolato, senza vita, dove non può crescere nulla, ho usato il mio posto preferito. Dunque da un lato ho dipinto la sensazione di sentire la propria casa al tempo stesso confortante e inospitale, dall’altro, ho tentato di rappresentare delle persone che riescono a sopravvivere facendo della persona amata una casa, un luogo dove rifugiarsi.
Raccontami dell’esperienza di lavorare dentro il Padiglione e di come sei riuscito a fare tuoi questi temi.
È stata un’esperienza totalizzante. Il quadro che ho dipinto è di quattro metri e mezzo per quattro metri e mezzo, per finirlo in due mesi ho dovuto lavorare un minimo di dieci ore al giorno. Mi sono trasferito nel padiglione, che ho usato come studio. Il quadro doveva essere più piccolo, ma una volta posizionato dentro la mia stanza ho deciso di ampliarlo e di fare in modo che occupasse tutto il muro. Da lì, insieme alla curatrice abbiamo pensato di chiudere le luci e di puntare dei faretti che e facessero luce solo sui quadri, e l’atmosfera è cambiata. Non solo il padiglione ha dato forma all’opera in termini di misure e atmosfera, ma sulla tela ci sono bastoni, stecchi che ho preso dal giardino: il padiglione è entrato nel dipinto.
Hai vissuto nel padiglione?
Praticamente! Il primo mese ho lavorato da solo, ma man mano che l’apertura si avvicinava, ha cominciato ad arrivare sempre più gente, per me era un disastro. L’unica scelta che ho avuto è stata arrivare più tardi, e finire in piena notte, il ché, che oltre ad avermi portato a fare amicizia con i custodi, mi ha fatto vivere dei momenti surreali. Uscivo dal padiglione di notte dopo tredici ore di lavoro, forse un po’alterato dai fumi della pittura, al buio, camminavo nel silenzio in mezzo alla Biennale che si stava costruendo, in quest’atmosfera di attesa, ed io tornavo a casa, andavo a dormire. E la mattina si ricominciava.
Sei riuscito a finire prima dell’inaugurazione?
Si, ma durante i giorni di pre-apertura, quando c’erano i primi visitatori, stavo ancora finendo il quadro e sono stato frainteso: tantissime persone pensavano che io stessi facendo una performance. Tuttora penso che ci siano i miei pennelli dentro il padiglione.
Vittorio Marella, tra la Biennale e i progetti futuri
Come ti sei relazionato con le poesie di Franco Arminio, altro protagonista del padiglione?
Rispetto molto quello che Franco fa con le sue poesie, il fatto che le porti in giro, che sia legato al territorio. Mentre lavoravo ho pensato molto a come incorporare l’amore per il territorio nell’opera, a come trasmetterlo, e mi sono reso conto che questo fosse un punto di incontro molto forte tra di noi. Le persone hanno perso il rispetto per il mondo. Non abbiamo nessun legame con quello che abbiamo intorno e cosi perdiamo anche il legame con noi stessi. Ora il mio lavoro è anche questo, un bisogno di ritrovare un legame più vero e sincero con la natura. Un bisogno che è stato bello rivedere in Franco, un poeta che fa qualcosa di completamente diverso da me ma unito da uno stesso sentire.
Ti ha cambiato l’esperienza in Biennale?
Non ho più paura di immaginare niente. Ho avuto modo di incontrare Fabrizio Plessi, un artista navigato, che mi ha detto “Una volta che le tue idee si ampliano, la tua mente si amplia e ti permette di pensare, di realizzare cose che non avresti mai pensato di poter fare prima, non si torna più indietro”. È vero: ora, per quanto la Biennale sia stata un’esperienza incredibile, non vedo l’ora del passo successivo. Sto lavorando a nuovi progetti, drasticamente più ambiziosi.
Quali?
Sto progettando una grande mostra in un museo di cui ancora preferisco non parlare. Nel frattempo lavorerò molto con le gallerie, ho una mostra a dicembre a Tokyo, un’altra a Napoli con Nicola Samorì e Marius Bercea e poi New York con Amanita, a fianco di artisti come Chantal Joffe, Milton Resnick, Joan Mitchell e Alice Neel. Dal punto di vista artistico, continuerò a lavorare alla serie iniziata in Biennale, Under the Weight of a Heavy Sun, a cui dedicherò il prossimo anno e mezzo. Saranno lavori basati sulla ricerca di un equilibrio con il mondo, e di conseguenza anche un equilibrio con noi stessi, o meglio: sulla ricerca e sul bisogno di questo equilibrio.
Rebecca Gnignati
Libri consigliati:
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati