Originario di Camogli, Filippo Balestra (Genova, 1982) ha iniziato nel 2006 con riviste letterarie e reading (“una volta ho letto mentre mangiavo una banana”, racconta), ha pubblicato Poesie Normali (Miraggi, 2015), Guida indipendente alla città di Genova (Hoppípolla, 2018), Diario Involontario (Tic edizioni, 2022), Troppo (Tipografia Helvetica, 2023). Nel 2021, in occasione de La Punta della Lingua, ha vinto il premio Franco Scataglini per la videopoesia Un adesso immenso, coprodotta da Alessio Bertallot per Kplus film. Nel settembre 2023 per RSI, Radio Svizzera Italiana, scrive ed è la voce per la puntata su Genova de Le città invisibili, a cura di Daniel Bilenko. Questa è la chiacchierata che abbiamo fatto su progetti passati, presenti e futuri.
La poesia di Filippo Balestra
e mi pare di poter dire che si tratta di una tecnica di scrittura, o teoria letteraria, che va avanti per sottrazione, caro Milo, ma una sottrazione logorante che si aggiunge, sommandosi, alla sottrazione, una sottrazione sovrapposta a un’ulteriore sottrazione impiantata su un’altra sottrazione ancora e ancora, qualcuno dice minimalismo, sì, una tecnica di scrittura che potremmo chiamare del minimalismo, e tu dirai, Milo, che lo abbiamo già sentito, il minimalismo, ma questo è un minimalismo estenuantemente sottrattivo, lo hanno già fatto, il minimalismo, in letteratura, è vero, ma questo è un MINIMALISMO STRABORDANTE, si chiama così.
Intervista a Filippo Balestra
Filippo, l’ultima volta che ci siamo visti tu eri su un palco, seduto a un tavolo, con un microfono da congressi e con due camicie una sopra l’altra. Eri lì per portare uno dei tuoi spettacoli, chiamato Conferenza sulla conferenza. Di cosa si tratta e cosa ha a che fare con la poesia?
Difficile dire cos’è la Conferenza, comincerei dal fatto che non è forse adatta la parola “spettacolo”; qualcuno ha detto “lecture performance”, ma meglio ancora utilizzare la formula con cui la introduco nella sinossi di presentazione: “un estenuante atto di sperimentazione linguistica e poetica in cui l’argomento principale è la mancanza d’argomento, o si parla piuttosto della conferenza stessa e in particolare del momento in cui la si sta tenendo“. E poi c’è l’idea che le poesie le si possa dire inavvertitamente, mentre si parla. Dopo anni di reading e poetry slam, a un certo punto mi sono stancato di attenermi – al testo, soprattutto, ma anche a me stesso: mi sembrava di diventare autoepigonale – e così ho sentito il bisogno di farmi salvare da un’idea di architettura di errori per il quale si costruisce una casa, sì, ma si costruisce una casa su una frana mentre frana, e quindi si costruisce una frana.
Un altro tuo spettacolo si chiama Esistere non basta, che si fonda su un concetto che trovo interessantissimo. Ce ne vuoi parlare?
Si chiama così perché ragionavo sul valore dell’impermanenza, e di quanto invece l’uomo (l’uomo occidentale?) tenda a capitalizzare lasciando ostinatamente segni della propria presenza. Esistere non basta, bisogna dimostrare che si esiste – vedi la bulimia da autorappresentazione sui social.
In fondo anche con la Conferenza indago il “l’atto creativo”, portandomi allo sfinimento per vedere cosa viene fuori. Nell’ENB c’è anche il valore visivo del testo, il fatto che ciò che è scritto, si può anche guardare, contemplare – parole come fossero paesaggi – ed ecco che mi sono dunque trovato a scrivere in pubblico (per ore) e proiettare su schermi ragionamenti e discorsi estemporanei.
Spiegaci meglio…
L’ENB si è realizzato ogni volta in forme diverse: la prima volta alla Galleria Lazzaro di Genova aspettavo che qualcuno dal pubblico interrompesse la mia sofferenza dando il via a una stampa da plotter direttamente sul manifesto della performance (nero su nero, sovrapponendo dunque il testo del manifesto con il testo scritto fino a quel momento, rendendo il tutto gioiosamente illeggibile). Ultimamente, con Marko Miladinović (vedi festival La punta della Lingua, di Ancona), abbiamo anche giocato con il suono, Marko lo manipola creando sul momento la colonna sonora di una sorta di film tutto scritto, da leggere ma anche da guardare.
Lungo il tuo percorso da poeta performativo ti succede anche di scrivere dei libri. L’ultimo, uscito l’anno scorso per Tipografia Helvetica, si chiama Troppo. Ma troppo di cosa?
Troppo è un libro che nasce da uno scambio di idee con Milo Miler, di Casa d’arte Miler. Parla dell’eccesso, della sovrabbondanza espansionistica che caratterizza il nostro sistema di mercato. Milo rimase colpito da una mia poesia anticapitalista, “Troppi Shampo“, e mi disse che su quel modello si poteva scrivere un pamphlet che mettesse in luce uno dei meccanismi più perversi di questo nostro impianto economico. Quindi parto da un aneddoto, di quando una volta in provincia di Mantova mi hanno detto “andiamo a vedere i maiali“, e io pensavo fossero una famigliola di maiali, ma erano quattrocento, un “piccolo allevamento“, dicevano loro, e a me sembravano tantissimi, troppi, e loro dicevano che erano pochi, e io invece sono ancora qui che non sono mai riuscito a togliermi quei maiali dagli occhi.
So che in questo momento sei a una residenza presso lo spazio SPAM! di Aldes. A settembre hai avuto una collaborazione con l’importante fondazione No Man’s Land. Quali sono i tuoi progetti futuri e quali direzioni prenderà la tua ricerca poetica?
Roberto Castello ha apprezzato la Conferenza sulla conferenza per il suo stile di scrittura così poco scritta, e così adesso siamo in residenza nel suo SPAM, a Lucca, insieme ad Alessandra Moretti, Stefano Questorio e Mariano Nieddu. Grazie ad Aldes sto frequentando il mondo del teatro ma mi capita anche di frequentare quello dell’arte contemporanea, com’è stato recentemente per Cantieri Aperti grazie a No Man’s Land. Siamo in tanti a sapere che è normale che la poesia, e l’arte, sconfini e vada da tutte le parti, in generale credo che tutto sia interdisciplinare, ciò che è vivo tende a sconfinare.
Tu che in più occasioni hai fatto dell’atto creativo stesso un’opera d’arte, cosa consigli a chi vorrebbe scrivere – che sia prosa o poesia – e non ci riesce?
Scrivere, comunque, tutti i giorni – e aggiungo: scrivere anche a mente, in particolare scrivere a mente mentre si legge -. Da poco ho scansionato un passo da un mio quaderno che mi sembra possa essere il manifesto di qualcosa, colgo l’occasione per pubblicarlo qui su questa rivista, come risposta a questa domanda:
ma sono anche indeciso devo dire, se chiamarlo anche MINIMALISMO SFIANCANTE,
MINIMALISMO ECCESSIVO E MARTELLANTE, ESASPERANTEMENTE MINUZIOSO MINIMALISMO OSSESSIVO, un minimalismo che non fa altro che togliere tutto, anche la speranza toglie, toglie tutto e non smette mai di togliere ma sovrapponendo, aggiungendo, andando al contrario della procedura precedentemente stabilita, è quindi anche un MINIMALISMO CHE CRESCENDO VA A RITROSO, MINIMALISMO DEL PARADOSSO, che si basa sul girare attorno all’idea, in questo caso l’idea del troppo, Milo.
Maria Oppo
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