A cosa servono i finanziamenti alla cultura? Riflessioni tra etica e politica

I recenti tagli dei fondi per la cultura aprono questioni mai risolte, quelle sull’efficacia dei finanziamenti, sui loro legami con la stabilità (o instabilità) politica e su chi deve riceverli

Notizia non del tutto circostanziata, ma che sicuramente troverà più ampia discussione nei prossimi giorni, è quella che riguarda la riduzione dei finanziamenti alla cultura ad opera di Raffaele Fitto (ex Ministro per gli affari europei, il Sud, le politiche di coesione e il PNRR; ora Vicepresidente esecutivo della Commissione europea. Al momento in cui scrivo, i commenti più diffusi dalla stampa sono quelli delle opposizioni, che trovano in questa vicenda una prova inconfutabile del fatto che Giuli sia in realtà un ministro commissariato.

Il delicato rapporto tra cultura e valore

Al di là del gossip da poltrona, però, ogni qualvolta si prospettano dei tagli dei finanziamenti alla cultura si sollevano sempre reazioni avverse, ed è naturale che sia così. Sarebbe però interessante fermarsi un istante, e chiedersi davvero a cosa servano i finanziamenti alla cultura, e comprendere se tali finanziamenti siano realmente positivi per il bene comune come di solito si tende ad affermare. Prima di avviare un dibattito da social network, è importante chiarire le premesse: la cultura è essenziale per l’essere umano, sia nella sua dimensione individuale sia nelle dimensioni collettive. Come mercato, la cultura ha anche un grande valore che supera la monetaria consapevolezza recentemente sviluppata (e che vuole il Colosseo valere quanti sono i biglietti che vende): al contrario, la cultura si integra all’interno di ogni processo produttivo ed è parte fondante di tutte le dimensioni economiche e industriali di una data società, incrementando elementi come la capacità di generare prodotti e servizi efficienti ed efficaci. Ancora, la cultura consente di sviluppare una migliore società, più consapevole, più radicata al proprio territorio, più attenta alla collettività, e creare le condizioni per un futuro più strutturato. 

Perché la politica deve finanziare la cultura?

Ciò detto, nessuna di queste condizioni spiega davvero il motivo per cui la cultura debba essere finanziata, anzi. Se la cultura è così importante per la collettività, perché lasciare che l’intero sistema culturale, tanto fondante per il nostro Paese e per i nostri cittadini, sia così fortemente esposto al rischio politico? Chiunque abbia un minimo di esperienza come “cittadino”, sa bene quanto proprio la gestione della cosa pubblica nel nostro Paese rappresenti uno degli elementi più aleatori del nostro tempo.

Alessandro Giuli
Alessandro Giuli

I finanziamenti aiutano davvero la cultura sperimentale?

La risposta che in genere è volta ad assicurare finanziamenti alla cultura è quella che molte manifestazioni culturali, non trovandosi ad avere un adeguato mercato, senza i finanziamenti pubblici tenderebbero a scomparire, riducendo così di molto l’eterogeneità delle espressioni culturali. Una risposta correttissima nei propri principi, e che affonda tanto nel concetto di equità, tanto in elementi di natura economica. E però, non pare che i finanziamenti alla cultura vadano in modo massivo alle espressioni più avanguardistiche, cui, se arrivano dei finanziamenti, sono finanziamenti del tutto residuali rispetto al finanziamento della gestione del Ministero e delle sue articolazioni. Non risulta che la comunità dei raver abbia beneficiato dei finanziamenti; non risulta che i movimenti punk abbiano conquistato le principali piazze d’Italia. Il circo (condannato ormai da tutti) non ha riscattato il proprio ruolo.

Chi dovrebbe ricevere i finanziamenti?

Pur chiedendo venia per la facile provocazione di queste ultime affermazioni, la domanda resta centrale, perché la risposta che, come collettività, diamo a questa domanda può modificare notevolmente i meccanismi di finanziamento della cultura, e anche i rapporti tra cultura e politica. Vanno sostenute quelle produzioni culturali che pur senza avere nemmeno uno spettatore rivestono comunque un carattere di sperimentazione, o vanno invece sostenute le produzioni culturali che proprio perché riescono a raggiungere un buon numero di spettatori si classificano come più rappresentative del nostro tempo? Va finanziato chiunque professi di fare cultura, o va invece finanziata la grande industria culturale? Soprattutto, ci sono altri modi per poter identificare dei criteri di finanziamento? Si può, ad esempio, individuare a livello di singola organizzazione una separazione tra servizi “core” e servizi che invece vengono esplicitamente progettati per generare valore pubblico? O soltanto perché si sta facendo cultura bisogna assumere che ciascuna attività sia di pubblico servizio?

C’è bisogno di maggiore coscienza collettiva

Se come collettività non sappiamo dare una risposta univoca a queste dimensioni, non riusciamo nemmeno a comprendere i motivi per i quali protestare per un taglio dei finanziamenti. Soprattutto, non sappiamo quali produzioni culturali debbano essere correttamente sostenute dal settore pubblico e quali, invece, per la rilevanza che hanno all’interno del nostro contesto socio-economico, debbano essere invece tutelate dall’influenza politica, prevedendo ad esempio un contesto di protezione “diretta” da parte dei cittadini e del settore privato in generale. Cerchiamo di mettere ordine e di identificare, euro per euro, cosa viene finanziato dal denaro pubblico. E cerchiamo di esprimere una visione puntuale di ciò che andrebbe finanziato e cosa no.

Come far sopravvivere la cultura?

Non sono elementi semplici da realizzare sotto il profilo tecnico, e ogni minima modifica all’esistente può generare ripercussioni importantissime e significative su tutto il settore. Però al momento, tutto ciò che il dibattito argomenta è legato ad una pedissequa necessità di finanziamenti, che tuttavia ancorano sempre più l’espressione culturale al potere politico di riferimento. Forse, è il caso di chiedersi cosa si debba mettere in salvo dai tagli indiscriminati, e soprattutto, come fare in modo che quella parte di produzione culturale che è una condizione essenziale per la nostra società, abbia dei margini di sopravvivenza e di sviluppo autonomi rispetto alle incertezze che sono invece caratteristiche strutturali della nostra democrazia.

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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