Il nostro mondo. Per capire il presente bisogna ascoltare le opere d’arte silenziose
Cose che parevano incubi del futuro o del passato, fortunatamente lontani nel tempo e nello spazio, si sono invece – gradualmente e velocemente – materializzate vicino a noi. Le opere d’arte sono gli antidoti ideali a un presente-futuro pieno di rabbia
Il nostro mondo, parti del nostro mondo,
sono crollate nel loro, il che significa che stiamo
vivendo in un luogo di pericolo e di rabbia.
DON DELILLO, TRA LE ROVINE DEL FUTURO (2001)
Il “futuro incandescente” di cui parlava ventitrè anni fa Don DeLillo nel suo pezzo originariamente pubblicato su “Harper’s Bazaar” e intitolato Tra le rovine del futuro. Riflessioni sul terrore e il lutto all’ombra di settembre, è qui, ed è qui per rimanere: “Nell’ultimo decennio, l’impennata dei mercati azionari ha dominato ogni dibattito e ha esercitato una profonda influenza sulla coscienza globale. Le multinazionali appaiono ormai più vitali e autorevoli dei governi. La spettacolare ascesa del Dow e la velocità di internet sono stati un invito per tutti a vivere in un futuro permanente, nello splendore utopico del cyber-capitale, dove non c’è memoria, i mercati non sono sottoposti ad alcun controllo e il potenziale di investimento è illimitato. Tutto questo è cambiato con l’11 settembre. (…) I manifestanti di Genova, Praga, Seattle e le altre città vogliono frenare il cieco impulso globale che sembra condurci verso un paesaggio di consumatori-robot e di instabilità sociale, con una probabile riduzione dei diritti all’autodeterminazione per gran parte delle persone nella maggioranza dei Paesi (…) la maggior parte degli uomini e delle donne coinvolti tende a rappresentare una forza moderatrice, che cerca di rallentare le cose, di riequilibrarle, di tenere a bada un futuro incandescente” (in Undici settembre. Contro-narrazioni americane, a cura di Daniela Daniele, Einaudi, Torino 2003, pp. 3-4).
Il futuro secondo Don DeLillo e la fantascienza
Lì, l’origine di oggi. Nel frattempo, i “consumatori-robot” e l’“instabilità sociale” (per non parlare della “riduzione dei diritti all’autodeterminazione” …), che potevano sembrare ancora tutto sommato fino a non molto tempo fa figure e condizioni uscite dalla penna di William Gibson o di Bruce Sterling, sono invece divenuti concetti e oggetti familiari in modo sinistro, parte oscena della nostra quotidianità. Perché, quando diciamo che la realtà attuale pare uscita da un romanzo distopico, per giunta scadente e sconclusionato, stiamo parlando in fondo di questo. Cose che parevano incubi del futuro e/o del passato, fortunatamente lontani nel tempo e nello spazio, si sono invece – gradualmente e velocemente – materializzate vicino a noi. Per molti, troppo vicino.
E nel frattempo, nel corso di questo ventennio, il mondo si è considerevolmente rimpicciolito, ridimensionato. Tranne qualche privilegiato illuso e nostalgico, la maggior parte di noi credo viaggi molto meno adesso rispetto a cinque, dieci o quindici anni fa – evitando magari intere porzioni del globo divenute improvvisamente turbolente. E, nonostante l’AI galoppante, si sono ristretti anche i confini del nostro orizzonte immateriale, oltre che di quello materiale, fisico: l’immaginazione zoppica, incespica, fa fatica. Quando la realtà incalza e picchia duro, è molto più difficile essere visionari, no?
L’arte come svolta nel futuro
Eppure, come diceva Cooper a suo suocero in Interstellar (2014), “è come se ci fossimo dimenticati chi siamo, Donald: esploratori, pionieri; non dei guardiani”. Dunque, proprio perché a quanto pare ci siamo ‘dimenticati chi siamo’, è ancora più importante in questo momento tenere d’occhio due o tre cose che sappiamo di lei: l’arte. Tenere d’occhio cioè per esempio quello che scriveva Giulio Paolini negli anni Settanta (“L’opera preesiste all’intervento dell’artista (che è il primo a poterla contemplare)”: 1973), e che scrive tutt’oggi, inesausto e molto probabilmente inascoltato: “L’artista non è ‘fuori dal mondo’ ma neppure ‘nel mondo’. Non vuole comunicare in forma diretta, in tempo reale e imporre la sua voce ma ascoltare, cogliere un’eco. (…) L’arte non parla, non è né pubblica né sociale come si torna oggi ad affermare, per esempio attraverso la pratica della Street Art, la funzione di ‘cura del mondo’ e ogni altra formula o congettura mirate a corrompere la vocazione sommessa e malinconica del singolo artefice. (…) Un’opera non concederà mai a nessuno, in nessun caso, il pieno possesso delle sue generalità e il suo autore sarà soltanto il primo testimone prescelto per compiere la delicata missione di custodire un insondabile segreto” (“Quando è il presente?”, 7 gennaio 2022, in Giulio Paolini – Quando è il presente?, catalogo della mostra a cura di Bettina Della Casa e Sergio Risaliti, Museo Novecento, Firenze 2022, pp. 51-54).
L’arte che non parla secondo Giulio Paolini
Può sembrare strano – e certamente lo è: impossibile negarlo, o far finta che non lo sia -, così come può anche essere controintuitivo, ma questa nozione irriducibile dell’arte che ‘non parla’, che ‘non comunica in forma diretta’, dell’artista dalla ‘vocazione sommessa e malinconica’ e della ‘delicata missione di custodire un insondabile segreto’ come nucleo della trasmissione da opera a autore a spettatore, costituisce forse l’unico antidoto possibile – e sperabile – al futuro incandescente che nel frattempo è diventato presente, al luogo di pericolo e di rabbia che è questo futuro-presente.
Christian Caliandro
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