Profondo oro. Sulla pittura e sul tempo di Maria Morganti
Quella di Maria Morganti è una pittura paradossale ed estremamente mentale. Ce ne parla Luca Bertolo, in occasione della mostra dell’artista milanese alla Galleria d’Arte Moderna di Torino
Ho conosciuto Maria Morganti (Milano, 1965) una quindicina d’anni fa, quando stavo cercando dei compagni di viaggio con cui organizzare degli incontri dedicati alla pittura in Italia. Insieme a lei Davide Ferri e Antonio Grulli ci riunimmo a Granara, un villaggio ecologico sull’appennino tosco-emiliano. La prima sera, non c’è che dire, ci infilammo in discorsi un po’ arzigogolati – pippe mentali, come li definì Antonio provocando in me un leggero sconcerto. Il giorno dopo, la conversazione riprese in tono amichevole. Buttammo lì vari titoli, ma nessuno ci convinceva davvero. Poi Antonio ne propose uno che adottammo seduta stante: La pittura è oro (il progetto prese la forma di tre diverse tavole rotonde, con un totale di più di venti relatori tra artisti, critici, curatori e collezionisti; l’iniziativa fu ospitata al DOCVA di Milano, nell’autunno del 2010). Rievoco questo aneddoto perché mi permette di introdurre un atteggiamento, un certo mentalismo, chiamiamolo così, che non di rado caratterizza anche i pittori; e l’oro, che proverò a utilizzare come metafora.
La mostra di Maria Morganti alla GAM di Torino
Mentre scrivo, alla GAM di Torino è in corso una grande retrospettiva di Maria Morganti, una di quelle mostre che raccolgono opere realizzate in un lungo arco temporale e ti fanno capire definitivamente se e quanto il lavoro di un artista regga il confronto impietoso col tempo. La mia opinione è che il suo lavoro regge perfettamente un tale confronto. La mostra, curata brillantemente da Elena Volpato, è un complesso e affascinante dispositivo, al cui nucleo sta l’idea di traslare (tradurre verrebbe voglia di dire) nel museo lo studio dell’artista. L’assetto definitivo della mostra si è rivelato solo a conclusione della performance, (Ostensione #1) avvenuta la sera dell’opening: due giovani artiste prendevano i quadri stivati in un grande scaffale (il mitico Luogogesto) e li appendevano uno alla volta nella posizione assegnata da un precisissimo spartito. Pareva che il salone pian piano fiorisse. More geometrico però: a campiture rettangolari e in pochi formati prestabiliti dall’artista in base alle proporzioni del proprio corpo. La mostra si articola ulteriormente in altre stanze con due diverse installazioni fotografiche, una scelta di disegni (figurativi!) di una Morganti giovanissima e un lungo scaffale su cui poggiano costa a costa più di un centinaio di libri, sottratti temporaneamente alla biblioteca personale dell’artista, accomunati dall’essere tutti dei diari. Che dire? Una grande mostra, felice, tonda, risolta.
La pittura di Maria Morganti
Una volta, recensendo un libro di Aldo Nove, Tiziano Scarpa si schernì dicendo che i suoi elogi non valevano perché l’autore era un suo amico. Confesso di trovarmi qui in un analogo conflitto d’interessi. Tra l’altro, niente è più noioso delle recensioni agiografiche. In effetti, ho impiegato del tempo prima di decidermi a scrivere qualcosa. Cosa mi ha sbloccato? L’intuizione di avere una carta da giocare. Anni fa un curatore mi sorprese dicendomi che avrebbe voluto stimare il mio lavoro artistico tanto quanto mi stimava come persona. Ci rimasi un po’ male, naturalmente, ma apprezzai l’inconsueta sincerità. Quanto a me, oltre all’amicizia ho sempre avuto grande stima dell’arte di Maria. Il punto delicato è più tecnico, se così si può dire. A lungo mi sono chiesto come mai una pittrice raffinata e colta come lei dipingesse quadri con grandi campiture monocrome la cui texture superficiale era (mi sembrava) abbastanza banale; una pittura timbrica dove la scelta cromatica risultava (mi sembrava) arbitraria; sequenze di colori – tracce di campiture precedenti – creassero dissonanze senza che queste avessero (mi sembrava) una necessità espressiva. Sì, sapevo dell’importanza della processualità del suo lavoro e accettavo senza fatica il racconto dei gesti quotidiani, della ripetizione differente, del parallelismo tra il dipingere una porzione di tavoletta e lo scrivere una pagina di diario – tutte caratteristiche con cui si è soliti raccontare la pratica artistica di Maria (lo fa lei stessa). Ma accettavo tutto questo appunto come un racconto, un qualcosa di esterno, un vestito che ricopre un corpo. Quando calava la notte (la ragione della pittura è notturna), io questo corpo-opera lo osservavo svestito e non riuscivo a trovarlo attraente come avrei voluto. E la cosa mi imbarazzava.
L’opera di Maria Morganti e il momento di epifania
Ma un bel giorno di maggio la mia percezione dell’opera di Maria Morganti è cambiata. È successo quest’anno, a Bologna. Una mostra squisita, quella curata da Enrico Camprini alla Galleria de’ Foscherari: poche opere, organizzate in senso fortemente installativo. A parete era appesa anche una tavola sinottica dei quasi trecento Incontri del mercoledì organizzati da Maria nel corso di dieci anni (in ogni incontro un artista era invitato da Maria a parlare del proprio lavoro davanti a un pubblico di soli artisti). L’ho guardata chiedendomi se andasse considerata anch’essa come opera (la risposta è sì). Più in là una dicitura avvertiva: “Ogni opera esposta in questo spazio è sia un’opera autonoma e compiuta in se stessa, sia parte dell’archivio-opera dell’artista: Un archivio del tempo: www.mariamorganti.it“. Visitando quella mostra qualcosa era scattato in me ed ero stupito di questa sorta di epifania. Stupito e imbarazzato: avevo impiegato quindici anni per capire qualcosa che in molti comprendono fin dal primo giorno. Ma ero felice, felice di aver scoperto l’acqua calda.
Come guardare la pittura di Maria Morganti
Cosa avevo capito di così importante? Che la pittura di Maria Morganti non andava guardata! O meglio, che non andava guardata come pittura. O meglio, che non andava guardata come tradizionalmente si guarda la pittura. E come si guarda tradizionalmente la pittura? La si guarda come a un complesso sistema di segni organizzati secondo principi di varia natura, tra cui i senso dell’armonia, codici culturali condivisi, inclinazioni psico(pato)logiche personali… Mi sto mettendo nei pasticci, lo so. In gran sintesi, un dipinto è al contempo più e meno di un’immagine. Un quadro è infatti anche una cosa, un oggetto fisico. Questa ambiguità o (che i filosofi mi perdonino) questo oscillante statuto ontologico del dipinto, ha caratteristiche interessanti. In quanto oggetto, un quadro può essere osservato e/o usato in molti modi diversi: possiamo descrivere a parole cosa rappresenta (se è figurativo), possiamo ispezionarne la superficie alla ricerca delle tracce lasciate dai movimenti dell’artista. Ma possiamo anche metterlo in orizzontale e usarlo come asse da stiro. Come è noto, quest’ultima opzione fu caldeggiata da un pittore profondamente mentalista, Marcel Duchamp. Era preoccupato per la decadenza di un medium – la pittura – che vedeva compromesso da un eccesso di “retinicità”. “Fino a cento anni fa” si lamentava, “la pittura è stata tutta al servizio della mente. Questa caratteristica è venuta perdendosi a poco a poco nel corso dell’ultimo secolo”.
La pittura mentale di Maria Morganti
In buona sostanza, la cosa fondamentale che ho capito a Bologna è che tutto nel lavoro di Maria Morganti ha a che fare con la dimensione mentale. Qualcuno forse si chiederà perché io insista a usare “mentale” invece che “concettuale”, termine da tempo entrato nel lessico famigliare dell’arte contemporanea. Una delle ragioni riguarda proprio quello che vorrei suggerire: ci troviamo qui di fronte al paradosso di un’operazione tutta mentale, che però è al contempo inestricabilmente legata a una pratica incentrata sulla fisicità dei materiali (fisicità ostentata fino al parossismo nel Quadro infinito) e sui gesti dell’artista.
L’archivio del tempo di Maria Morganti
In un loro libro recente (Donna si nasce (e qualche volte lo si diventa), Mondadori, 2024) le filosofe Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo utilizzano molte volte la locuzione corpo-che-genera. Il libro c’entra poco con quanto sto dicendo, ma quella locuzione si è in qualche modo saldata nella mia memoria col titolo della mostra bolognese citata prima, Generare l’archivio. Si generano i figli, si generano le opere (l’architettura interna dello studio-opera di Morganti ricorda una dimensione uterina, gestazionale) e si generano anche gli archivi. L’archivio di Maria Morganti, che lei chiama “archivio del tempo”, è una creatura speciale, mentale e tecnologica, che pian piano ha preso il sopravvento su tutte le altre, fagocitandole per così dire. Generato esso stesso, l’Archivio ormai adulto comincia a sua volta a generare. Genera storie, per esempio, cioè tempo messo in forma, tempo reso percepibile. “L’archivio genera” – suona un po’ anomalo il maschile associato all’atto del generare… Dopo averla messa incinta e impaurito che un figlio lo potesse detronizzare, Zeus inghiottì la titanessa Meti, che nel frattempo si era trasformata in una goccia d’acqua. Per liberarsi dal tremendo male che sentiva alla testa, Zeus chiese a Efesto di spaccaglierla a colpi d’ascia. Ne uscì Atena, già adulta e armata. E così, la dea greca della sapienza, della strategia in battaglia e delle arti fu generata con una messa in scena tutta mentale e al maschile.
L’oro non oro di Maria Morganti
Ed eccomi all’oro. Al fondo oro per la precisione, che come altre superfici metalliche riflette la luce oltre che esibire la sua cangiante tonalità di colore. Metallo prezioso per eccellenza, è verosimile che oltre al suo valore economico sia stata proprio questa ambiguità visiva a rendere l’oro particolarmente efficace per la pittura sacra medievale, che mirava all’ultraterreno. Ora, che c’entra tutto questo con l’opera di Maria Morganti, che al contrario appare tutta assorbita nella dimensione terrena, transitoria della vita umana? Ecco l’idea che mi è venuta: che si tratti di uno squillante vermiglione, un verde acqua o un viola sporco, i suoi colori andrebbero guardati comunque come fossero un fondo oro. Una superficie che è qui e allo stesso tempo altrove, che non raffigura niente ma si comporta come un’immagine – presenza di un’assenza. Una pittura paradossale, dunque, capace di eclissarsi laddove ostenta la sua presenza. Potremmo anche dire: una pittura capace di lasciare il posto a qualcos’altro. Beh, in questo atteggiamento riconosco una dimensione profondamente etica. E da questo punto di vista, le migliaia di ore dedicate dall’artista ai suoi colleghi, e le migliaia di strati di colore stesi su tele di cotone ci appariranno quantità meno incommensurabili tra loro. Avranno un comun denominatore, il tempo di Maria Morganti.
Luca Bertolo
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