Che cos’è il brain rot e cosa può fare il mondo della cultura per arginarne gli effetti

La vulgata è, concentrandosi solo sul mondo giovanile, che il brain rot sia esclusivamente un problema legato alla comunicazione online. Ma si tratta di un modo sbagliato di vedere la realtà delle cose…

Le parole sono importanti. Non si tratta soltanto di “avere un linguaggio erudito e ricercato”, ma di estendere il perimetro della nostra riflessione e della nostra conoscenza della realtà, talvolta arricchendola con significati e contenuti nuovi. L’Oxford Dictionary, quest’anno, assolve in modo pieno a questa funzione, ponendo al centro del dibattito un tema che è tutt’altro che nuovo nella sua dimensione qualitativa ma inedito, probabilmente, nella sua dimensione quantitativa. 

Che cos’è il brain rot

La cronaca: la Oxford University Press, editrice dell’Oxford English Dictionary, ha proclamato come parola dell’anno il termine “brain rot”. La definizione, di brain rot, che in italiano è stato tradotto con una non altrettanto efficace “marcescenza del cervello”, è sostanzialmente il processo di supposto degrado cognitivo dovuto ad un eccessivo consumo di materiali (prevalentemente online) considerati come banali (anche se l’inglese “trivial” è forse più evocativo) e poco stimolanti (anche qui, l’inglese unchallenging ha sfumature più tridimensionali).
Detto fuori dai denti: brain rot indica tendenzialmente la valanga di video e contenuti dei social network, e l’effetto che questi contenuti si teme possano avere sulla salute dei ragazzi che trascorrono le ore a fissare uno schermo.

La relazione tra giovani e tecnologia

Malgrado tutti i commenti si siano dunque concentrati sul difficile rapporto tra giovani e tecnologia, in realtà la tematica ha una dimensione positiva estremamente importante, che ha poco a che fare con la tecnologia e che invece si collega molto all’essere umano, e che, parafrasando una canzone di Bersani, può suonare più o meno così: il nostro cervello ha bisogno di un motivo per “tenersi sveglio” e non perdere la sua elasticità.
In altri termini, ciò che realmente conta di questa parola dell’anno non è soltanto la dimensione “in negativo”, né tantomeno è soltanto applicabile al consumo di contenuti online.
Piuttosto che affermare con approccio tecnico o con veemenza che le nuove generazioni risultano a rischio a causa dell’eccessivo consumo di contenuti online, può risultare molto più costruttivo centrare l’attenzione pubblica sull’esigenza di potenziare un’offerta di contenuti più arricchenti e stimolanti.

Centro Culturale di Rozzano
Centro Culturale di Rozzano

Perché il brain rot non riguarda solo il consumo online

Un approccio di questo tipo, chiaramente, richiede una riflessione più operativa, e delle proposte concrete che tengano conto non solo dei contenuti, ma anche delle modalità di fruizione.
Si tratta di una riflessione molto complessa, che deve tener conto delle ragioni che spingono così tanti soggetti differenti a produrre contenuti di media qualità, così come deve tener conto delle ragioni per le quali, pur essendo presenti, sui social media come in altri canali di comunicazione (si pensi soltanto alla televisione) contenuti differenziati non solo per qualità, ma anche per livello di attivazione cerebrale, così tante persone tendano a premiare con il loro consumo i contenuti che richiedono un minor “costo” di attenzione.

La risposta educativa al brain rot

Senza entrare nei dettagli del funzionamento attentivo, è ovvio che se oggi sostituissimo tutti i contenuti presenti su Instagram o su Facebook con contenuti di alto profilo culturale, non otterremmo una riduzione del cosiddetto brain rot, ma un abbandono di tali social network.
La risposta educativa può essere efficace, ma si deve basare probabilmente più sul meccanismo della ricompensa che sulla tipologia di contenuto. Soprattutto, la riposta educativa non potrà avvenire per questa generazione.
La sfida che oggi ci troviamo dunque ad affrontare è quella di stimolare le persone che oggi abusano, online e offline, di contenuti di bassa qualità, ad un consumo più stimolante per la nostra mente, utilizzando dei mezzi che permettano di favorire una preferenza verso esperienze più arricchenti.

Cosa può fare il mondo della cultura

Lo “scrolling”, vale a dire la versione digitale dello zapping compulsivo (che colpiva un buon numero di utenti televisivi), deve essere contrastato con un’offerta che, a fronte del maggior costo in termini di impegno (e anche in termini monetari) generi un beneficio ben maggiore della fruizione di video che a brevissimo verranno realizzati da intelligenze artificiali e che saranno costruiti sulla base di attenti algoritmi volti a catturare la nostra attenzione.
Questo è lo stimolo positivo che dobbiamo cogliere, ed è uno stimolo che alla nostra attuale società farebbe molto bene cogliere, soprattutto nel delicato rapporto tra essere umano e tecnologia.
Sinora, la nostra Europa ha infatti adottato un approccio regolamentale: ogni innovazione conduce minacce e criticità, e noi, come italiani e come europei, rispondiamo a tali criticità andando a porre dei perimetri più stringenti. Non sempre questa strada è percorribile né tantomeno è efficace.

Il dibattito sul brain rot

Non si può imporre ai produttori di contenuti online di sviluppare una determinata tipologia di contenuto, né si possono realmente imporre limiti all’utilizzo di social network o di televisione sulla base di standard di età, sesso, titolo di studio, ambito lavorativo.
Ciò che si può fare è promuovere dei centri culturali e aggregativi che rispondano ad esigenze che, evidentemente, oggi trovano una migliore risposta in altri canali.
È necessario forse interrogarsi sull’efficacia della nostra offerta, piuttosto che “proibire” l’offerta altrui.
Presentare un’offerta contenutistica alternativa che funzioni e risulti attraente è il modo migliore di avviare un cambiamento nella produzione contenutistica generale, che è fatta in molti casi da organizzazioni che competono per l’attenzione delle persone.
Sollevare un dibattito sul tema è necessario. Limitarsi ad una valutazione in negativo, senza proporre azioni che ambiscano quantomeno a migliorare la condizione, è invece la forma più subdola di contenuti “da brain rot” che ci possa essere.

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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