L’opera d’arte nell’era del post-capitalismo. Tra finta protesta e moralismo a buon mercato

Nonostante la finzione della protesta, le opere letterali sono desiderose di fare bella impressione e di essere accettate, riconosciute, inserite nella nicchia ‘di contestazione’ tra fiere, biennali e mostre collettive a tema

Ecco che cosa non va, e non va bene, nell’arte e nella letteratura ‘impegnate’ degli ultimi dieci-quindici anni. Il tono.
Questo tono costantemente impostato, dell’autore o dell’autrice che deve a tutti i costi non solo spiegare agli altri (spettatori, lettori) come vivere e come stare al mondo, ma che deve per forza presentarsi come il guerriero senza macchia contro le ingiustizie dello stesso mondo. Questo tono condito di moralismo a buon mercato, che decisamente ‘stona’ anche perché poi l’autore/autrice non è che abbia, nella stragrande maggioranza dei casi, una grande e profonda esperienza della vita. 

Il tono delle opere senza ambiguità

Al massimo, una post-adolescenza un pochino turbolenta (ma sempre nei limiti, eh, e poi iperprotetta) condotta a Berlino con i soldi dei genitori e dei nonni; qualche piccolo trauma infantile e puberale, nulla di trascendentale; qualche esperienza di precariato nel settore culturale qui e lì, prima dell’immancabile approdo in un porto sicuro alle soglie della maturità. (Ma, a scanso di equivoci, quand’anche ce l’avesse questa profonda e dolorosa esperienza esistenziale, comunque quel tono non andrebbe bene in ogni caso: e infatti, a riprova di ciò, quelli che ne sono provvisti di solito sono spassosi da morire.) È un tono in definitiva che impartisce lezioncine quasi sempre per procura, e a debita distanza, per così dire. E, se lo state pensando, la risposta è sì: mi accorgo di averlo usato anche io, questo tono, più spesso di quanto mi piaccia ammettere.
Questo tono è sgradevole in particolare perché elimina ogni ambiguità: non solo del pensiero e dell’interpretazione, ma proprio nel rapporto tra sé (l’artista/scrittore) e la realtà. C’è spazio solo per questo strano confronto al tempo diretto e in differita (il famoso, o famigerato, “corpo a corpo”…). 

Jeff Koons. Shine. Exibition view at Palazzo Strozzi, Firenze 2021. Photo © Ela Bialkowska OKNOstudio
Jeff Koons. Shine. Exibition view at Palazzo Strozzi, Firenze 2021. Photo © Ela Bialkowska OKNOstudio

Il corpo a corpo con la realtà nelle opere d’arte

Ecco, io il corpo a corpo con la realtà, con la società, nell’arte non lo voglio, va bene? Mi basta quello di quando mi alzo dal letto, o di quando guido, o di quando faccio la spesa al supermercato.
Non lo voglio perché mi sembra un po’ troppo rozzo – almeno per essere proposto e allestito da uno che dice di essere un intellettuale, un artista appunto, o uno scrittore. Esistono almeno diecimila modi di contatto differenti, più raffinati e appaganti e coinvolgenti. E poi, soprattutto, è un’inutile, insopportabile finzione. Infantile e narcisista. Non funziona – e nove volte su dieci serve a lavare la coscienza, la propria e quella collettiva (del ‘sistema dell’arte’, per esempio). Non è un pochino sospetto infatti che, proprio in una fase storica come questa, in cui il mercato artistico sembra aver definitivamente perso ogni ritegno e ceduto ai più folli istinti e desideri speculativi, proprio adesso l’arte si sia immersa con apparente voluttà in un lavacro purificatore, e si sia messa in testa di esorcizzare tutti i mali e le storture del mondo attraverso mega installazioni, allestimenti di archivi fittizi e non e indagini para-sociologiche e pseudo-antropologiche? L’arte può influire sulla realtà, può “cambiare il mondo”? Eccome. Ma in modo più indiretto. 

La letteralità nelle opere d’arte

…ed è chiaro poi che abbiamo un problema grave con la letteralità. Cioè noi stiamo chiedendo all’opera di fare quello che non può fare, e che non dovrebbe fare in nessun caso: dire una cosa chiara, una cosa che sia quella e non un’altra. Esprimere, comunicare – preferibilmente in stampatello – un’opinione univoca, inequivocabile, su un tema X o Y che affligge e sostanzia l’attualità, i media, i social. Le stiamo chiedendo cioè di comportarsi come uno slogan: come una pubblicità. L’opera che dice ‘quella cosa’ (e non un’altra, o cento, o mille altre anche parzialmente indecifrabili e in contraddizione tra loro, oppure nessuna…), dice un messaggio che è al tempo stesso quello dell’autore, ma anche quello che l’autore stesso pensa di dover necessariamente dire, e pensare, in questo preciso momento. Un gioco di riflessi che è un autentico incubo, capace da solo di mettere in scacco ogni ipotesi anche timida di creazione. Oltretutto, un gioco di riflessi che non ha alcun senso, e che ne poteva assumere uno solo in un’epoca al tempo stesso tragica e demenziale come quella che stiamo vivendo. L’opera-che-dice-una-cosa-sola, inoltre, nonostante le apparenze (ribelli, anticonformiste, pericolose) è un’opera in realtà molto tranquilla e volenterosa, desiderosa di fare bella impressione sui ricchi e sui potenti, su coloro che hanno abbastanza soldi e conoscenze per far parte del giro giusto, e desiderosa al tempo stesso di essere accettata, riconosciuta, inserita al calduccio nella sua nicchia ‘di protesta’, ‘di contestazione’. (Uno come Alberto Arbasino si sarebbe divertito un mondo, scommetto, con una categoria del genere.)

Le opere che non ambiscono di uscire fuori dal sistema dell’arte

Vale a dire, non solo questo tipo di opera finto-corrucciata non nutre alcuna ambizione di uscire fuori dal sistema dell’arte, ma ha fatto di tutto lungo un arco di anni per ricavarsi il suo angolino, e ora certo non ammette di rinunciare ad esso, o di esserne addirittura cacciata via: vuole quello che le spetta. Vuole cioè, furiosamente se è il caso, festeggiare nel benedetto recinto dell’arte contemporanea con quello stesso post-capitalismo (crudele, gerarchico, patriarcale, sfruttatore, razzista, militarista, nichilista) che all’occorrenza critica duramente nelle biennali, nelle fiere, nelle mostre collettive a tema.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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