La vita mai raccontata di Picasso “straniero a Parigi” in due mostre a Milano e Mantova
Un taglio curatoriale nuovo e inaspettato, quello proposto in questi due appuntamenti, che rileggono la produzione di Picasso e la arricchiscono di storie curiose, mai venute alla luce prima. Ecco i dettagli nell’intervista alla curatrice Annie Cohen-Solal
Annie Cohen-Solal è affabile, non ha il sopracciglio alzato dei critici d’arte eppure il suo approccio a Picasso rappresenta una rivoluzione che passa per due mostre, due cataloghi con contributi privilegiati e una biografia di oltre 600 pagine (Picasso. Una vita da straniero, Marsilio). Insieme, questi raccontano un Picasso straniero nella sua patria d’elezione, la Francia, e un Picasso poeta alle prese con le Metamorfosi di Ovidio e gli affreschi di Giulio Romano. Nelle due sedi di mostra, il Palazzo Reale di Milano e Palazzo Te a Mantova, sono raccolte 130 opere e molti documenti, con percorsi realizzati in collaborazione con il Musée national Picasso-Paris e il Musée National de l’Histoire de l’Immigration di Parigi, più la famiglia Picasso. Per approfondire la storia mai raccontata dell’artista, abbiamo intervistato in esclusiva la curatrice dei progetti.
Chi è Annie Cohen-Solal
Con un approccio da sociologa dell’arte, e mossa da empatia, la doppia curatrice accede ad archivi e documenti a cui nessuno era ancora giunto, svelandoci un Picasso osteggiato ma vittorioso sulle guerre e sui nazionalismi, quello francese in primis. Ebrea sefardita, Annie Cohen-Solal è nata in Algeria, come suo zio Jacques Derrida: straniera a modo suo, a 28 anni, nel 1985, scrive una biografia su Sartre che diventa un best-seller; da allora la sua carriera non conosce confini. Oggi insegna alla Bocconi e vive tra Milano, Parigi e Cortona.
Picasso “straniero” e immigrato a Parigi
Cosa sarebbe stata l’arte di Picasso se non fosse rimasto straniero nella sua patria d’elezione, la Francia?
Avrebbe comunque dipinto Guernica, ne sono certa. Sono entrata nella vita di Picasso leggendo tutti i cataloghi custoditi all’École normale supérieure di Parigi, poi ho scritto un libro inchiesta. Da quando Leo Castelli mi introdusse all’arte americana, mi sono dedicata all’arte dal punto di vista dell’immigrazione, è l’originalità del mio lavoro. Da 40 anni ne scrivo con questo approccio.
Cosa la lega a Picasso?
Lui è rifiutato dalla Francia perché non appartiene al sangue e alla terra; è quel che ho sentito io, in quanto ebrea, arrivando in Francia dall’Algeria a 14 anni. Negli archivi della prefettura ho ritrovato quello “sguardo dell’altro” che, come diceva Sartre, ti trasforma in uno straniero.
Si sentiva così Picasso arrivando a Parigi?
Sapeva anche di essere un genio, dialogava con Velasquez. A 14 anni aveva copiato il ritratto di Filippo IV e la sua copia è meglio dell’originale. Eppure sei anni dopo, nella Francia dell’affaire Dreyfus, per la polizia è un reietto. Picasso entra dalla porta di servizio, con i catalani che sono stigmatizzati come anarchici. La sua vita interiore si riflette nella corrispondenza e nella sua arte. Gli archivi del Museo Picasso contano ancora 200mila documenti inediti, io ho letto le 4mila lettere della madre, che gli scrive quasi ogni giorno per 40 anni. Nel 1931 lui esprime la sua vulnerabilità con il Minotauro cieco guidato nella notte da una bambina. Nell’inamovibile I saltimbanchi di Washington (da cui esponiamo una copia) si identifica con Arlecchino; è un quadro che racconta la xenofobia e che ha ispirato sia Rilke sia Apollinaire. Tutta l’arte di Picasso è filosofica.
Picasso richiede la cittadinanza francese soltanto nel 1940 e gli viene negata, malgrado sia appoggiato da politici influenti.
Nel 1940 è uno straniero vulnerabile in Francia e “artista degenerato” in Germania, oltre che esule del franchismo in Spagna. Ha paura di morire e chiede la cittadinanza. Ma già nel 1927 può diventare francese per una nuova legge e non ne fa richiesta. La mia domanda è: perché non gli interessa? Nel 1947, quando Picasso dona dieci opere allo Stato, Georges Salles, il direttore degli Musei francesi, dichiara: “Oggi finisce il divorzio tra lo stato francese e il genio” e gli viene elargito lo status di “residente privilegiato”. Però Picasso non diventerà mai francese: negli Anni Sessanta rifiuterà la legione d’onore e la cittadinanza che gli offre André Malraux.
Picasso “straniero” nelle mostre a Milano e Mantova
Il catalogo della mostra di Milano ricostruisce la storia de I saltimbanchi.
Nel 1908, André Level, un collezionista molto interessante, va al Bateau Lavoir e lo acquista da Picasso, il quale ha bisogno di soldi per un viaggio. Qui, Level vede anche Les Demoiselles d’Avignon. Sono due momenti estetici diversi, separati da soli due anni di intervallo, 1905 e 1907. Level compra I saltimbanchi per mille franchi con l’accordo di pagare Picasso un diritto di seguito che nel 1914 sarà di 4mila franchi. Quando manda l’assegno, Level scrive a Picasso in un francese del Settecento, barocco, spiegandogli che lo ammira. È un altro “sguardo dell’altro” che Picasso avverte e che saprà sfruttare circondandosi di persone di primissima qualità. Il che lo rende uno stratega infallibile.
Poi c’è la questione urticante del “Kubismo”, come viene ribattezzato dai facinorosi nazionalisti francesi.
Praticamente, in Francia il Cubismo è invisibile. Intanto il mercante Daniel-Henri Kahnweiler lo vende nell’intero mondo occidentale, realizzando la prima globalizzazione economica in arte; quindi, Djagilev conosce Picasso e il Cubismo in Russia. Per capire, serve tornare al periodo 1870-1914, quando il nemico più grande della Francia è la Germania. E sono proprio alcuni tedeschi ebrei a riconoscere il Cubismo. Come Picasso, anche loro vivono a Parigi fuori dalle istituzioni, in una nazione rigidissima che ha allora nella polizia degli stranieri e nell’accademia di belle arti due istituti conservatori e nazionalisti. Nel 1914, Picasso diventa ricchissimo e il Cubismo viene osannato in tutti gli imperi dell’est. Intanto a Parigi vengono sequestrate 800 opere cubiste poi svendute in un’asta terribile, dal ’21 al ’23, e trattate come un bottino di guerra. Tutto ciò fa di Picasso una vittima collaterale della xenofobia contro i tedeschi.
Les Demoiselles d’Avignon, del MoMA, sono un altro capitolo di questa storia xenofoba.
Nel 1939 Alfred Barr, direttore del MoMA, compra il quadro che André Breton aveva consigliato a Jacques Doucet di acquistare per donarlo al Louvre, il quale lo rifiuta. Barr farà di tutto per averlo, vi riconosce il genio di Picasso, teso tra eros e thanatos. Sei mesi dopo, un poliziotto ignoto scriverà di Picasso: “Questo straniero non ha nessuna qualità per diventare francese”. Il potere esorbitante che questo poliziotto ha su Picasso è paradossale, ma è anche una radioscopia della Francia di allora; ed è uno scandalo che uno degli più grandi pittori del secolo fosse trattato così, perdendo anche il suo nome: è una parabola quasi religiosa.
Picasso si difende anche con la poesia, tema della mostra di Palazzo Te a Mantova.
Diventa poeta nel 1935 in un periodo di crisi senza uscita, sia politica sia professionale e personale. Fa una poesia dada. La mostra mette in confronto due trasgressori, Giulio Romano verso il papato e Picasso verso l’opera accademica di suo padre. É un percorso inedito incentrato sulle Metamorfosi di Ovidio che Picasso esegue su richiesta di Albert Skira nel 1931.
Quale oggetto di Picasso l’ha più colpita?
L’agenda degli indirizzi, piccolissima, dove stipava tutti i suoi contatti, intersecando gli eterogenei mondi che frequentava. Ho studiato con Erving Goffman e pratico la micro-sociologia, interessandomi ai segni “deboli”.
Nel 1968 il ministro della Cultura, André Malraux, crea una legge per dotare i musei francesi delle opere di Picasso. Possiamo dire, con Jean-Jacques Neuer, che non è stato Picasso a diventare francese, ma la Francia a divenire picassiana?
Assolutamente sì. Quando si trattò del nome di Claude e Paloma, che sono nati “fuori del matrimonio” e non avevano il diritto di portare il nome del padre, anche se lui li aveva riconosciuti, Picasso impone un cambio di legge sulla famiglia.
L’8 aprile 1973 Picasso muore a Mougins. Quale eredità lascia?
La Francia era ipercentralizzata e Picasso l’ha decentralizzata andando a stabilirsi a sud nel 1955. Diventando comunista ottiene visibilità e libertà. Ma è dissidente: nel 1953 il suo ritratto di uno Stalin contadino non piace agli ortodossi del partito, che vogliono cacciarlo, ma lui serve alla causa e quindi ancora una volta vince su chi lo avversa. Mi hanno impressionato le lettere dei tanti sindaci comunisti che gli chiedono un’opera per le loro città. Lui acconsente e così facendo modernizza la Francia. Picasso è lo straniero in cui la Francia nazionalista può specchiarsi, è il suo sguardo altro. Lo si vede anche nella sua scelta di lavorare come ceramista, con gli artigiani: feconda il nobile con il prosaico e l’alto con il basso, elevando gli artigiani contro gli accademici. A partire da una dimensione locale, Picasso costruisce la sua fama globale.
Ed infine c’è Gósol, il villaggio disperso sui Pirenei.
Torniamo al 1906, il sogno di Picasso è quello di essere superiore a Matisse, ma non gli riesce subito, è la chiave del mio libro. Così lascia Parigi e parte per questa comunità di contrabbandieri dove la polizia non ha mai messo piede. In lui avviene una trasformazione esistenziale. Dopo cento giorni passati con Pep Fondevila, il nonagenario capo del villaggio, apprende l’economia del contrabbando e capisce come deve vivere a Parigi. Picasso è un artista dotato ma è anche uno stratega politico e la sua lezione dice che non bisogna mai farsi vittime e che serve ribaltare le stigmate. Torna quindi a Parigi e finisce il ritratto di Gertrude Stein come maschera. Supera Matisse e diventa leader dell’avanguardia. Ho passato due estati a Gósol e nelle sue opere ritrovo tutto ciò.
Nicola Davide Angerame
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