Capogrossi: dai misteri della figura alle inquietudini del segno
Più di settanta opere tracciano un percorso che, partendo da un’arcana classicità, arriva a sondare lo spazio attraverso una sillaba dal candore tribale. Figure ataviche e figure-sigla, sospensioni formali e fibrillazioni grafiche. La più completa retrospettiva di Capogrossi (anche per la ricchezza dei saggi in catalogo) da molti anni a questa parte. Alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia fino al 10 febbraio.
“Serrature cabalistiche” le ha definite Giuseppe Ungaretti: sigle-stigmate, lettere di un alfabeto fatale (e fetale), chiavi o matrici d’immagine, segni che non presumono significati altri da sé: sparsi e vaganti, a prima vista indefinibili e indifferenti l’un l’altro, quasi messi lì per caso e, invece, associati in un ritmo articolato come in una composizione musicale di tema e controtema, fuga e salto, ostinazione e ripresa.
Così si presentano gli strani geroglifici che occupano le tele (le Superfici) di Giuseppe Capogrossi (Roma, 1900-1972) a partire dalla storica mostra tenuta presso la Galleria del Secolo di Roma nel 1950. Così, sempre ostinatamente uguali a se stessi fino alla fine: uguali come lo sono le tre combinazioni grafiche che sono impiegate per descrivere lo spazio (l’orizzonte, la verticale, la curva); ma senza scelte a priori, senza idee prime, quanto invece come strutture aperte, dinamiche, risonanti.
Per molti si tratta di calligrammi arcaici, con tutto il loro corredo di miti e di misteri, ma basta osservare qualsiasi Superficie per accorgersi che da quell’unica matrice, da quel fecondissimo seme che è il segno di Capogrossi, prolifera e si sviluppa un campo pulsante di relazioni, di forze visive, di “vitalità fenomeniche”. Una “riserva di movimento” che fa sì che ogni parte si colleghi alle altre parti, in un gioco di infiniti concatenamenti.
E dire che la parabola di Capogrossi, puntualmente ripercorsa nella retrospettiva del Guggenheim di Venezia e ordinata in più di settanta lavori, prende avvio dagli anni Trenta con una figurazione tutta impostata sull’arcaismo di Valori Plastici e sulla poetica dell’immobilità di Piero della Francesca e degli affreschi pompeiani. Ne Il giocatore di ping pong (1931) e ne I canottieri (1932) i personaggi appaiono come fissi e allucinati, con lo sguardo assente, al limite tra fisico e metafisico. In Piena sul Tevere e Ballo sul fiume (del 1936) il popolo di figure non comunica più e le architetture non tengono. A partire dal ‘46 poi i soggetti umani mirano a dissolversi ed entra in scena la serie di tele (forse più segreta e rara), fatta di finestre e tende, in cui la scansione spaziale è data da piani sovrapposti, sfaccettati, zigzaganti, che annunciano la Forma magica che accompagnerà Capogrossi fino alla morte (1972).
Forma archetipica, certo, ma non ripartenza da zero, in quanto tutto l’iter di Capogrossi è sempre un andare oltre le apparenze, inventarle, chiarirle: un cogliere qualcosa non di visto, ma qualcosa che è in noi stessi, come i “segni minuscoli e spericolati” che l’artista da piccolo aveva osservato fare a un bambino cieco: egli cercava – dice – quella forma dello spazio che i suoi occhi non potevano cogliere ma che lui “intensamente sentiva e viveva”.
Luigi Meneghelli
Venezia // fino al 10 febbraio 2013
Capogrossi. Una retrospettiva
a cura di Luca Massimo Barbero
Catalogo Marsilio
COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM
Dorsoduro 701
041 2405411
[email protected]
www.guggenheim-venice.it
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