Addio all’imperatore dei sensi
Scompariva ieri a Fujisawa uno degli ultimi giganti del cinema giapponese, Nagisa Oshima, tra i più visionari e immoralistici dei registi della sua generazione. Ineguagliabile la densità della sua visione sul rapporto tra eros e thanatos. Ma tante sono le piccole e grandi rivoluzioni che il suo cinema porta con sé.
All’età di ottant’anni moriva ieri Nagisa Oshima: era nato a Kyoto nel 1932. Discendente di una famiglia di samurai, il giovane Oshima si ritrovò ben presto però a dover vivere in condizioni estremamente povere con l’aiuto della sola madre che lo allevò. È con il mondo universitario (studiò legge alla Kyoto University) e con la militanza politica che i sentimenti di Oshima verso la tradizione giapponese, i luoghi comuni e lo stretto sistema di riti e di regole rappresentarono il primo spunto conflittuale che lo portò a diventare un autore di satira brillante, che per tutta la sua carriera lo vide attivo nel combattere contro ipocrisia e conformismo.
La passione per la settima arte lo portò alla fine degli Anni Cinquanta a lavorare come aiuto regista per una piccola casa di produzione, la Shochiku. Lì registi come Kido Shiro lanciarono la moda dei film d’ambientazione borghese, cercando territori inesplorati e soprattutto per rivaleggiare con il prestigio di major come Toei e Nikkatsu. La Shochiku inizia perciò a promuovere il talento di giovani registi. È l’ora del primo lungometraggio di Oshima: Il Quartiere dell’Amore e della Speranza (Ai to Kibo no Machi, 1959) che si produce immediatamente in un acceso dibattito e che la critica saluta come la “Nouvelle vague della Shochiku”, caricando di aspettative un gruppo di giovanissimi registi di cui Oshima rappresenta senza dubbio la punta di diamante.
L’anno seguente Oshima realizza il politico Notte e Nebbia del Giappone (Nihon no yoru to kiri, 1960), incentrato sull’incontro e gli scambi di idee fra studenti del movimento radicale Zengakuren sconfitti nelle lotte contro il trattato nippo-americano del 1960, e altri studenti della generazione precedente ormai integrati nella società che hanno subito la frustrazione dell’inversione di rotta compiuta nel 1952 dal Partito comunista giapponese. È in questo poco visto e poco ricordato esempio che Oshima esprime dal punto di vista tecnico la sua fase più sperimentale: l’ampio uso del piano sequenza con flashback o progressioni libere che si oppongono ad ogni consuetudine del cinema tradizionale. Ma soprattutto lo spirito di un film che incarna e rende visibile il profondo senso di delusione innescato nei giovani dalla recente sconfitta sull’assetto internazionale del Giappone che viene salutata come estremamente significativa anche dal punto di vista politico di una generazione, ma che spaventò la Shochiku che dopo tre soli giorni di proiezioni dovette ritirare Notte e Nebbia del Giappone.
Oshima come atto di protesta abbandonò la Shochiku per fondare una propria casa di produzione, la Sozosha, e realizza Il Demone in Pieno Giorno (Hakuchu no torima, 1966) dove, utilizzando 2.000 rapide inquadrature, descrive la follia di un criminale stupratore e omicida, iniziando con questa impressionante opera visiva (soprattutto dal punto di vista formale) una intera scia di registi che verranno dopo di lui.
Poi con Sulle Canzoni Sconce Giapponesi (Nihon shunka ko, 1967) e Il Ritorno degli Ubriachi (Kaette kita Yopparai, 1968) tratta il tema, fino a quel momento tabù in Giappone, della discriminazione verso i coreani residenti in Giappone e racconta tramite i suoi personaggi la scandalosa storia d’origine coreana della dinastia nipponica. Quest’aspetto legato ai temi etnici è stato poco sottolineato o completamente ignorato dalla maggior parte della critica italiana che ha sempre (con la consueta inadeguatezza scandalistica e morbosa) raccontato per lo più dell’Oshima pornografo, e lo pone invece tra i pochi altri coraggiosi registi (Shohei Imamura e Tomo Uchida) che hanno squarciato il velo di silenzio sul destino di questa minoranza etnica: ancora oggi circa 700mila persone ufficialmente cittadini della Corea (Nord e Sud, un tempo colonia giapponese) sono privi del diritto di voto e vittime di varie discriminazioni.
L’Impiccagione (Koshikei, 1968) segna invece l’approdo a una visione burlesca di stampo brechtiano. Nel corso degli Anni Sessanta devia sempre di più marcatamente rispetto alla sua cinematografia finora espressa e nel 1970, in collaborazione con l’appena diciottenne sceneggiatore Hara Masato, realizza Dopo La Guerra di Tokyo.
È importante ricordare che nel 1962 venne fondata in giappone l’ATG – Art Theatre Guild che, grazie alla creazione nelle grandi centri di sale cinematografiche destinate a film d’autore, ha un ruolo significativo nella distribuzione delle opere di produzioni indipendenti giapponesi. Grazie a questa associazione, registi come Oshima dotati di spirito libero e innovatore realizzarono i loro film d’avanguardia segnando una vera e propria svolta nel costume e nella cultura cinematografica nipponica, poiché fu loro consentito di poter affrontare per la prima volta apertamente le questioni dell’omosessualità e più in genere dell’identità sessuale.
Come ogni grande continente, anche la cinematografia di Oshima ha il suo centro, il suo nucleo caldo. Dopo molti lavori televisivi e documentari esce nel 1976 L’impero dei Sensi (Ai No Korida), il film che stordì il pubblico occidentale con la sua oscura intensità, la radicalità dell’incontro tra eros e thanatos, che culmina nel famoso orgasmo indotto con la pratica estrema dello strangolamento, quella messa nera della ritualità sessuale nella quale la donna uccide il suo amante nell’ultimo, irripetibile amplesso.
In Europa e in America la maggior parte dei critici più verbosi erano all’oscuro di quella pratica sessuale e soprattutto del fatto che lo spunto del film venne tratto da un fatto di cronaca del 1936. Tagli e cesure contraddistinsero e alimentarono il mito di questo film: basti pensare che il pubblico italiano dovette aspettare gli Anni Novanta e l’homevideo per visionare la versione originale dell’Impero dei sensi che uscì nelle sale censurato e ritocatto con il titolo Ecco l’impero dei sensi.
E certamente Oshima meriterebbe di essere conosciuto non soltanto per questo film. Sia come sia, L’impero dei Sensi resta l’opera artistica più radicale e bataillana mai realizzata che descrive con una forma, una messa in scena e un rigore assoluto lo spettro iridescente della passione, dell’ossessione e della sottomissione al desiderio fino all’auto immolazione del proprio corpo.
Il corpo è così ancora una volta il territorio estremo della rivoluzione, come lo sarà per il cinema di Koji Wakamatsu (recentemente scomparso in un tragico incidente a Tokyo, produsse l’Impero dei Sensi) dove la carica sessuale esplode e deflagra sanguinariamente sfidando ogni morale, e facendo impallidire ogni superficiale evocazione dell’eros, tristemente condannato a diventare oggi l’additivo di ogni manifestazione della merce e del consumismo.
L’acclamato ritorno in scena pochi giorni fa di David Bowie offre con sorprendente e arcano tempismo lo spunto per ricordare un altro grande punto di riferimento nella cinematografia di Oshima, quel Furyo. Merry Christmas Mr. Lawrence (1983), la prima grande co-produzione tra Giappone, Inghilterra e Nuova Zelanda. Furyo è il film dei “conflitti” dove il campo di reclusione di prigionieri di guerra di Giava (il film è ambientato nel 1942) diventa il coacervo delle pulsioni e dei conflitti umani più indicibili e dove ancora una volta la carica eversiva della sessualità diventa l’innesco del dramma. Memorabile la scena del bacio tra Bowie e Ryuichi Sakamoto che in una sola immagine sublima tutta la complessità dei sentimenti di attrazione e repulsione della cultura giapponese per l’Occidente durante l’intero Novecento.
Al successo internazionale di Furyo seguì poi un’altra produzione fuori patria con l’allucinante e cosciente commedia di gusto bunueliano Max Mon Amour (1986) dove una perfetta Charlotte Rampling portava in scena una delle più paradossali e geniali satire sull’erotismo e il senso comune mai filmate, che non si può raccontare a parole ma che merita di essere vista in tutta la sua surreale malizia.
Con il suo ultimo lavoro, lo splendido e glaciale Tabù (Gohatto, 1999), Oshima (che da allora per problemi di salute non poté più girare film) sembra aver consegnato alla storia un testamento artistico perfetto, quasi teorico, che riassume tutti i colori e le tematiche dei suoi film: il mito del samurai e del Giappone feudale con tutte le sue regole e il suo zen incontra l’elemento anarchico della sessualità che tutto frantuma e che in questo complicatissimo schema (soprattutto per gli occidentali) rompe la rigida geometria delle regole, conferendo alla composizione una “parziale rottura della simmetria” che per l’estetica giapponese è il vero compimento della bellezza.
Riccardo Conti
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