La battaglia della content creator Noemi Tarantini contro un “ideale superato” di bellezza

Su Instagram e TikTok la divulgatrice discute le pratiche museali e gli errori del settore culturale, ossessione per la “bellezza” inclusa. Abbiamo parlato con lei di buongusto, patriarcato, elitismo e nuove prospettive per il futuro

Qual è il ruolo del patrimonio culturale, quale il suo valore? E quale il modo in dovrebbe essere curato e quindi proposto? Sono queste e moltissime altre le domande che si pone Noemi Tarantini, giovane content creator con formazione storico-artistica molto seguita su TikTok (quasi 40mila follower) e Instagram (quasi 12mila) con il nickname Etantebellecose. Social media manager per MUSEIMPRESA e membro del podcast su attualità e patrimonio culturale Le comari dell’arte, Tarantini ha cominciato sui social facendo disamine tra arte e moda, e con il tempo sta diventando sempre di più l’interlocutrice di riferimento per i e le GenZ (e non solo) che vogliono apprezzare le corrette pratiche museali o viceversa capire le disfunzionalità del settore culturale. Inclusa la crescente ossessione per la bellezza.

Noemi Tarantini. Credits 
Lorenzo Passoni
Noemi Tarantini. Credits Lorenzo Passoni

Etantebellecose. L’intervista

Sui social stai facendo un’accurata critica del concetto di bellezza, della sua pervasività così come della sua vuotezza. Da dove nasce questa irritazione, questa (sana) rabbia?
Credo che il primo vero strattone sia arrivato il giorno della discussione della mia tesi magistrale: avevo intitolato l’introduzione “Ripartire dalla bellezza” ed esordiva con l’assunto per il quale “Siamo il Paese della bellezza”, indiscutibile per me come per tutti i membri della commissione, tranne uno: il prof. Pierluigi Sacco. Non dimenticherò mai l’alzata di sdegno che fece il suo sopracciglio quando aprì il tomo. Una micro espressione per lui, un terremoto per me. Quando mi sono affacciata sui social da content creator, nel 2020, finalmente ho capito perché. Ho iniziato a notare che questo termine era davvero ovunque: nei video dei divulgatori d’arte (i cosiddetti “artsharer”) e dei travel blogger, nei testi di accompagnamento delle mostre, nelle interviste alle celebrity, nelle campagne pubblicitarie, in radio, nei programmi di cucina, nei talk show e perfino nei piani elettorali. È sulla bocca di tutte e tutti, ma per dire cosa? Il punto è questo: non significa assolutamente nulla.

Quanto questa rivendicazione di bellezza è legata al nazionalismo e al classismo, e quanto spesso porta alla strumentalizzazione di luoghi e comunità?
Sarah Gainsforth riprendendo le teorizzazioni di Marco D’Eramo, sostiene che “i ceti inferiori inseguono quelli superiori imitandone le pratiche e le consuetudini. Ma diffondendosi, la pratica si svaluta e quella che sarebbe una democratizzazione della possibilità di movimento diventa motivo di sprezzo di classe”. La pratica cui lei si riferisce è il turismo, ma secondo me la stessa interpretazione è applicabile alla bellezza. Definire qualcosa “bello” sottende un’adesione – più o meno conscia – al gusto dominante. E le regole del “buongusto” da chi sono dettate? Dall’élite. Gli strati popolari, quindi, assimilano valori non propri nella speranza di ottenere approvazione sociale. Ne consegue che spesso adottiamo l’aggettivo per sentito dire, perché così dimostriamo di avere sensibilità artistica. La bellezza è il vettore di un certo modo di presentarsi al mondo e di un certo modo di stare nel mondo. A mio avviso, fintanto che inseguiremo la bellezza, la fruizione del patrimonio culturale rimarrà un perenne tendere a qualcosa di più alto di noi, una condizione sognante, o un’allucinazione, in cui idealmente le emozioni ci rendono tutte e tutti uguali, senza distinzione di classe. Usiamo la bellezza all’opposto della perifrasi: è una semplificazione, una scorciatoia che impigrisce il pensiero e il linguaggio, si usa quando non si ha altro da dire.

Noemi Tarantini, BriUp
Noemi Tarantini, BriUp

Una parola rischiosa?
La trovo particolarmente pericolosa poiché ci allontana dall’analisi e dalla comprensione delle cose. Ecco, la bellezza ci allontana dal “perché?”. Chi organizza o cura mostre raramente ci spiega perché un’opera sia stata realizzata in quel modo; piuttosto preferisce raccontarci la pennellata, le date e invitarci alla contemplazione. Nei luoghi della cultura mancano i perché, e secondo me è anche colpa della retorica della bellezza, la quale agisce affinché ci accontentiamo di provare semplicemente stupore. Non sto negando l’impatto positivo, sul benessere e sulla salute, che il contatto con ciò che si percepisce come bellezza possa generare, dico però che l’identificazione emotiva come stimolo autoconclusivo talvolta ci annebbia la vista. Pensiamo alle città-cartolina, ai borghi/presepi e ai residenti-attori: boule de neige della società dei consumi che vende luoghi esteticamente perfetti, nel tentativo di sotterrare i problemi strutturali e pompare la rendita immobiliare con conseguenze devastanti sull’abitabilità dei territori e sulla qualità della vita. Per Mark Fisher il capitalismo ci fa credere che non esista alternativa al capitalismo; allo stesso modo i “paladini della bellezza” ci fanno credere che se ti opponi alla bellezza sei disumano. Il commento più frequente che ricevo sotto ai miei video è che sono “povera di spirito” e ho sbagliato mestiere dato che “non provo emozioni di fronte all’arte”.

In un Paese come l’Italia è una prospettiva particolarmente difficile.
Sulla carta i primati culturali dell’Italia si sprecano: abbiamo deciso che con il Rinascimento l’arte abbia toccato il suo punto più alto, politici e manager noncuranti sbandierano ancora la fake news secondo la quale la penisola possiederebbe il 60/70/80% dell’arte mondiale, ci vantiamo di avere il maggior numero di siti UNESCO e una Capitale Europea della Cultura. C’è il seme del colonialismo in questo modo di strumentalizzare la “bellezza” come arma di supremazia. Se davvero siamo il Belpaese e la bellezza è un asset strategico, perché i professionisti del settore sono sottopagati? Perché Firenze – emblema del genio artistico italiano-, esplode e crolla? Perché il lavoro degli artisti non è riconosciuto né incentivato? Perché a Napoli la cittadinanza si ostina a non riconoscere le opere d’arte pubblica che le vengono periodicamente “imposte” dall’alto? A proposito dei famosi “perché?” che mancano.

Noemi Tarantini © Daniele Mari
Noemi Tarantini © Daniele Mari

Bellezza, patriarcato e la mostra di Artemisia Gentileschi a Genova

Questi termini di definizione del valore sul parametro della bellezza coinvolgono da vicino anche le donne: la cultura è patriarcale per definizione, se nata in seno a una società patriarcale, o secondo te può non esserlo?
La cultura patriarcale permea tragicamente anche il settore storico-artistico, il quale sembra preferire affrontare con algida superiorità e piglio pedagogico le problematiche del nostro tempo, senza guardarsi dentro. Le istituzioni culturali, che nell’immaginario collettivo sono buone e care, credono di fare la loro parte attraverso la semplice ostensione di opere che affrontano argomenti attuali o inserendo qua e là nei public program qualche grosso nome di esperti in tematiche di genere. Quello che manca è lo sforzo di decostruzione interna orientato a verificare e correggere eventuali (probabili) falle nella governance. Qual è il senso di organizzare una mostra che celebri il ruolo delle donne nella scienza, nell’arte, nella letteratura, nella Resistenza, e via discorrendo, se poi il board è composto da uomini bianchi cis?

Un po’ il disastro della mostra di Artemisia a Genova, della cui denuncia (“stanza dello stupro” inclusa) ti eri fatta promotrice.
La Fondazione, i curatori Costantino D’Orazio e Anna Orlando e la società organizzatrice Arthemisia hanno rinnegato le obiezioni di stampo transfemminista che abbiamo mosso con Non Una di Meno. Non vedo differenza rispetto al ministro Valditara che sostiene che il patriarcato non esiste. La cultura patriarcale non riconosce di esserlo. Succede anche nell’arte. In questo caso la mostra non produceva cultura, piuttosto direi che metteva in scena quella dominante, con tutte le sue contraddizioni e criticità. Davvero poco edificante. La cultura – poi dipende con quale accezione la intendiamo, ma che verosimilmente consiste nella risposta, tangibile e intangibile, di individui o comunità a stimoli e bisogni -, è per sua natura patriarcale, ma può scegliere di esserlo meno, e di esserlo sempre di meno nel tempo. All’estero molti musei ci stanno già provando, in Italia mi pare tutto fermo. Le istituzioni culturali, e i loro funzionari, si presentano imperturbabili, ma è una maschera: hanno paura perché stanno perdendo di autorevolezza e fiducia e non sanno come riconquistarle se non proponendo verità incontrovertibili. Il risultato è che le sentiamo ancora più distanti. Se si mostrassero vulnerabili e si ponessero da mediatori trasformativi di conflittualità, in esse troveremmo spazi di confronto (e conforto), tolleranza e arricchimento, una risorsa necessaria in questi tempi bui.

Noemi Tarantini
Noemi Tarantini

Cosa verrà dopo la bellezza, secondo Noemi Tarantini

Cosa speri prenda il posto della bellezza?
Il concetto di “rilevanza”. Rilevanza storica (non storico-artistica) e sociale. Che un monumento pubblico sia “bello” (per chi, poi?) ce ne facciamo poco, ma se è rilevante per la comunità dell’area allora cambia tutto. Cambia il regime di priorità nel gioco in cui turista batte sempre residente; lo scopo della tutela (perché cambia il concetto di cura), che da fine diventa strumento per tenere in vita abitudini e tradizioni; il valore d’uso torna fondante. Il monumento cessando di essere feticcio e diventando sollecitazione assume una pubblica utilità per il corretto funzionamento del vivere in collettività. Pensiamo ai centri storici: cosa li rende “belli” ai nostri occhi? Le mura romane, le chiese medievali o le fontane rinascimentali, che nella nostra mente li rendono “autentici” (concetto horror). Al contrario, le periferie industriali e, in generale, le aree interne o marginalizzate sprovviste di testimonianze antiche (possibilmente classiche) sono “brutte”, o comunque non meritevoli di interesse e, quindi, investimenti economici. Ora, sostituendo “belli” con “rilevanti per la comunità di appartenenza”, cambia tutto.

Cosa credi, e speri, che avverrà allora?
Abbandonare il concetto di bellezza per sottolinearne la romanticizzazione significa fare posto ai valori: quelli della giustizia sociale, della cooperazione, dell’empatia, della co-responsabilità, dell’inclusione, dell’intergenerazionalità, della cittadinanza attiva. Credo che applicando il concetto di rilevanza al nostro rapporto con il patrimonio culturale, potremmo costruire società democratiche migliori.

Hai definito il discorso di Giuli narcisistico ed elitario: secondo te è il destino della cultura istituzionale?
E anche anacronistico, aggiungo ora. Mi auguro, se non altro per spirito di autoconservazione, che l’establishment si accorga quanto prima che è destinato a crollare se non farà i conti con i moti di insoddisfazione sempre più rumorosi che si stanno facendo largo soprattutto tra le fasce più giovani della popolazione italiana. La frammentazione dell’informazione operata da Internet e dai social consente agli utenti nelle bolle di andare molto a fondo di certe questioni che con i media tradizionali potevano passare in sordina. Ciò determina maggiore consapevolezza e, di conseguenza, maggior dissenso. I tempi sono troppo cambiati per vedere nelle barricate una soluzione. C’è una scollatura troppo grande tra la programmazione culturale e la quotidianità dei discorsi correnti.

Noemi Tarantini, Photocall TikTok Awards
Noemi Tarantini, Photocall TikTok Awards

Quali testi, contenuti, video consigli a chi vuole studiare di più questa prospettiva?
Sarebbero tantissimi. Per iniziare ad avvicinarsi a questa prospettiva, però, direi: Economia e gestione dell’eredità culturale. Dizionario metodico essenziale, del grande Massimo Montella; Il museo necessario. Mappe per tempi complessi, di Simona Bodo e Anna Chiara Cimoli; Museologia radicale, di Claire Bishop; Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà, di Tomaso Montanari. Poi, seguire su Linkedin il prof. Pierluigi Sacco; leggere l’incoraggiante report della Commissione Europea Culture and Democracy e la Convenzione di Faro, da tenere sul comodino a mo’ di Bibbia; ovviamente il podcast Le Comari dell’arte che tengo insieme alle bravissime Barbara Caltabiano, Tea Fonzi e Yasmin Riyahi; ah sì, e anche i miei video su TikTok e le mie storie infuocate su Instagram.

Giulia Giaume

Libri consigliati:

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Giulia Giaume

Giulia Giaume

Amante della cultura in ogni sua forma, è divoratrice di libri, spettacoli, mostre e balletti. Laureata in Lettere Moderne, con una tesi sul Furioso, e in Scienze Storiche, indirizzo di Storia Contemporanea, ha frequentato l'VIII edizione del master di giornalismo…

Scopri di più