Luca Beatrice e Marco Romano. Due pensatori da ricordare e studiare
Il 10 gennaio è morto l’architetto Marco Romano, mentre il 21 gennaio è scomparso Luca Beatrice, critico e curatore d’arte contemporanea. Ecco perché vanno studiati per capire il presente
Nel giro di qualche giorno l’irrefrenabile vita ha tolto dalla scena due talenti: Marco Romano e Luca Beatrice. Nessuno dei due ha mosso un sentimento nazionalpopolare. Eppure, già Oscar Wilde ammoniva: attenzione! Se tu guardi l’arte, ma non consideri il pensiero critico che fa nascere l’arte, tu non vedi l’arte, vedi solo fantasmi. Studiamoli, questi due nomi, per non vedere solo fantasmi.
Chi era Marco Romano
Marco Romano (1934-2025) è stato un pensatore di caratura europea. I suoi libri rimarranno nel tempo: dai primi anni Novanta (nel 1993 esce per Einaudi “L’estetica della città europea”, poi, tra gli altri, per Marsilio “La piazza Europea”, per Utet “Le belle città”) Romano ha espresso una riflessione originalissima sull’individuo e sull’Europa nel mondo. I manuali di storia dell’arte possono essere riscritti, dal Medioevo in avanti, alla luce della sua teorizzazione: tutti gli individui, anche i più poveri, analfabeti e emarginati, partecipano con le proprie mani, i propri desideri, le proprie volontà, all’evoluzione estetica delle città. La storia dell’arte non è una sequenza che va da Fidia a Picasso (i musei la fanno troppo comoda, diceva), ma una ramificazione molto complessa di desideri estetici, di libertà individuali e sociali, che non rimangono inespressi nella testa di milioni di anonimi, ma vengono testimoniati in case, strade, viali, teatri, piazze, palazzi, portoni, finestre, mercati, chiese. Ovvero: la storia dell’arte non è un susseguirsi di artisti dalla spiccata personalità. Tutti noi, in quanto cittadini, determiniamo, con la nostra vita, l’evolversi dell’estetica dei luoghi che abitiamo.
Chi era Luca Beatrice
Luca Beatrice (1961-2025) ha invece scelto un percorso assai diverso: quanto più Marco Romano volteggiava in alto, alla ricerca delle grandi tensioni – i temi collettivi – su cui si regge il nostro essere individui e cittadini al volgere dei secoli, tanto più Luca Beatrice, a testa bassa, come un cane segugio, ha cercato le didascalie con cui segnare l’epoca contemporanea. I suoi libri (su tutti, “Da che arte stai. 10 lezioni sul contemporaneo” Rizzoli, “Le vite. Un racconto provinciale dell’arte italiana”, Marsilio) testimoniano il suo essere stato un buon prosecutore della critica d’arte novecentesca italiana, che è stata essenzialmente – e in ciò vi è anche tutto il suo limite – un grande sottotitolo all’arte. Il Novecento italiano è stato un secolo di eccellenti didascalizzatori dell’arte: Lionello Venturi, Giulio Carlo Argan, Roberto Longhi, Federico Zeri, Francesco Arcangeli, Giuliano Briganti (con la buona eccezione di Cesare Brandi che provò una seppur tiepida teorizzazione) hanno prodotto e lasciato tanti sottotitoli, sulla scia di Giorgio Vasari biografo. Il loro sguardo, di cui Luca Beatrice è stato erede, non ha mai messo in discussione la gerarchia: prima l’arte, poi, come sottotesto, il pensiero, il giudizio, la cronaca sull’arte. Pura scia vasariana.
Il pensiero critico di Luca Beatrice
Così, mentre in altre parti d’Europa e degli Stati Uniti, il pensiero critico sull’arte ha generato scuole e personalità notevolissime di respiro internazionale, da Alois Riegl a Erwin Panofsky, da Walter Benjamin a Arnold Hauser, il didascalismo italiano ha prodotto buoni soprintendenti, come Antonio Paolucci, buoni indagatori, come Luca Beatrice, ottimi divulgatori, come Philippe Daverio e Vittorio Sgarbi, ottimi curatori, come Germano Celant, ma non è mai riuscito ad uscire dal recinto che si è dato. I cosiddetti critici d’arte italiani non si sono mai dati un originale pensiero di lettura e di trasformazione sociale del mondo: ne hanno lasciato il compito ai filosofi di ieri e di oggi, dai Benedetto Croce e Giovanni Gentile di ieri ai Massimo Cacciari di oggi, relegando il proprio impegno a sottotitolare, ad annotare di lato e in basso. Di fatto, la critica d’arte italiana sta soffrendo questo imbuto d’insignificanza. Mentre, infatti, troverai giovani animati da desiderio che dicono: voglio diventare il nuovo Michelangelo, il nuovo Freud, il nuovo Einstein, il nuovo Lévi-Strauss, il nuovo Basaglia, difficilmente troverai un ragazzo che dice: voglio diventare il nuovo Federico Zeri o Lionello Venturi. Perché, appunto, la didascalia, senza un pensiero motore che dia orizzonte, è spesso inappetente.
Si salutino dunque le anime di Marco Romano e Luca Beatrice: si affrontino i loro libri, le loro diverse vite, per capire come possa nascere, anche in Italia, non soltanto un’arte, ma anche un pensiero critico e sociale sull’arte di rilievo internazionale.
Luca Nannipieri
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