Il Carnevale Romano, fra Géricault e Kounellis
Si avanza, con la rapidità di un cavallo sfrenato, verso il Carnevale Romano (11-21 febbraio), giunto alla quarta edizione, dopo il successo di pubblico registrato nel 2011 (600mila contatti in 11 giorni). La tradizione, però, è ben più longeva: il famoso Carnevale rinascimentale era un’apprezzata manifestazione, animata soprattutto dalla corsa dei cavalli berberi su via del Corso, in grado di ispirare per secoli artisti e scrittori, oltre a registrare un cospicuo afflusso di pubblico, aristocratico e non. Torna la rubrica “Il grande vetro”.
A un artista, in particolare, si lega l’esperienza del Carnevale Romano (11-21 febbraio). Era il settembre del 1816. Théodore Géricault lasciava Parigi per un viaggio in Italia. Dopo una tappa a Firenze, si spostò a Roma. Cavallerizzo provetto (morirà proprio per i postumi di una caduta da cavallo), il francese fu sempre ossessionato dalla rappresentazione di questo nobile e agile animale, fino al parossismo di tele che ritraevano semplicemente una sequenza di groppe (vedi quella della collezione privata di Fontainebleau, 1811, o i Cinque cavalli visti dalla groppa del Louvre, 1812-14). Suo idolo dell’infanzia, assieme a Rubens, era stato l’acrobata Franconi, che si esibiva al Cirque Olympique, frequentato e rappresentato più tardi anche da Henri de Toulouse-Lautrec.
A Roma, capitale del classicismo già romanticamente rianimata da archeologismi esangui grazie alle incisioni del Piranesi, Géricault lascia risuonare le corde della più autentica passione artistica in armonia rispetto agli ardori giovanili: la corsa dei cavalli berberi, equini semiselvaggi di razza araba sbrigliati da piazza del Popolo fino a Palazzo Venezia in occasione del Carnevale, lancia la volata, mai conclusa, di una serie di studi per un enorme dipinto sul tema, su cui l’artista medita lungo il soggiorno romano, passando da una prima composizione (Baltimora, Walters Art Gallery) in cui si lascia affascinare dal momento della liberazione dei cavalli, ad alcuni bozzetti in cui, frementi e ingualdrappati di piume, gli animali sono portati dai palafrenieri allo start (Lille, Museo delle Belle Arti; Parigi, Louvre); fino a una composizione, più poussiniana e classicista, in cui giovani schiavi trattengono i cavalli nella campagna romana distesa e olimpica (Rouen, Museo delle Belle Arti).
Perfettamente imperfetto, irrisolto come da vademecum romantico, il ciclo di bozzetti avvinse Géricault in una dipendenza intenibile, un’ispirazione cangiante che lo attanagliava soprattutto quanto alla fisicità della lotta tra cavalli e stallieri: un’eruzione di energia, tra il clangore degli zoccoli e la schiuma degli ansimi, che seppe tradurre, sia pure nel non-finito dei suoi oli su carta intelata, con chiaroscuri drammaticamente fondi e squillanti risonanze cromatiche.
Un commento rapido di Jacques Thuillier fa da trait d’union con i cavalli dell’italo-greco Jannis Kounellis. Su Géricault, lo storico dell’arte scrisse di “una tensione appassionata che non raggiunge lo scopo, un’opera che tutta quanta esprime la lotta del creatore contro la propria arte e contro il tempo, e che non fu mai la tranquilla pratica di un linguaggio”. Jannis Kounellis – ed è emblematico di un certo filone di ricerca del Novecento – inflisse una bordata all’illusione linguistica, alla “tecnica” del rappresentare, allorché nel 1969 si tenne a Roma una sua personale presso la Galleria L’Attico di Fabio Sargentini, con dodici cavalli vivi. Una presentazione, dunque: pulsante, persino disagiante, nella propria fisicità. Mutatis mutandis, la tensione esistenziale d’un Gericault, quella lotta alla – e con la – creazione per abbattere il confine tra arte e vita, è diventata esistenza tout court in Kounellis, specie se si considera il colto citazionismo dell’installazione implicante un animale dalla longeva tradizione artistica, anche e soprattutto pre-romantica: dai monumenti equestri antichi al Gattamelata di Donatello; dalle giostre di Paolo Uccello alle groppe stondate di Piero della Francesca; dalla riverenza di Leonardo per Francesco Sforza ai cavalli urlanti di Picasso.
Kounellis ha spesso confessato la propria suggestione “surrealista”, nell’ispirarsi alla provocazione di André Breton sulla rivista Le surrealisme au service de la révolution, secondo cui qualcosa potrebbe riuscire altrettanto impossibile quanto ai tartari condurre i propri cavalli ad abbeverarsi alle fontane di Versailles. Altrettanto impossibile – aggiungiamo . quanto colmare la distanza tra rappresentazione e vita, tra versaillese nobiltà intellettuale della rappresentazione e urgenza immediata dell’esistere. Ma la corsa di quei cavalli – e soprattutto, di quegli artisti “staffieri”, irrisolta, scalpitante, tormentata – parte nell’Ottocento a piazza del Popolo. Chissà che, anziché arrivare a piazza Venezia, non sia approdata alla Galleria L’Attico, via Beccaria.
Antonio Maiorino
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati