I musei americani stanno facendo passi indietro sui programmi di inclusione e diversità. Ecco perché

Dopo anni di costante incremento delle politiche cosiddette DEI, anche il mondo della cultura deve fare i conti con il cambio di rotta imposto da Donald Trump, che minaccia di tagliare i finanziamenti alle istituzioni intenzionate a portare avanti le “discriminazioni illegali e immorali” dell’ideologia woke

DEI è l’acronimo che identifica le politiche volte a favorire la diversità, l’equità e l’inclusione per consentire la piena partecipazione di tutti i componenti di una comunità alla vita sociale, garantire il rispetto dei diritti individuali e l’accesso di ognuno ai servizi, con particolare attenzione alle minoranze e ai soggetti vessati da discriminazioni. Negli Stati Uniti che negli ultimi anni hanno assistito a una polarizzazione strumentale della politica intorno a questi temi – nella propaganda della destra repubblicana i programmi DEI sono finiti nel calderone delle proteste contro l’ideologia woke, liquidati alla stregua di un politicamente corretto di facciata – l’elezione di Donald Trump ha portato alla drastica accelerazione di una tendenza già in atto da qualche tempo (anche in riflesso agli eccessi della cancel culture).

Il veto su diversità e inclusione negli Stati Uniti di Trump

Basti pensare che, nel corso del 2024, alcune tra le più grandi e importanti compagnie del Paese hanno dismesso, una dopo l’altra (tra gli ultimi casi si segnalano Meta, McDonald’s, Boeing) i programmi DEI volti a favorire l’equità in ambito lavorativo, e così è successo in diversi contesti accademici – spesso per obbligo di leggi statali promosse da Stati conservatori quali la Florida, l’Alabama, lo Utah, il Texas – con le università portate o costrette a smantellare gli uffici deputati a garantire quelle politiche inclusive che, soprattutto dopo il 2020 e il caso dell’omicidio di George Floyd, avevano conosciuto una chiara impennata. Un dietrofront certamente influenzato da una retorica secondo la quale favorire “a tutti i costi” le diversità finirebbe per danneggiare la meritocrazia, fino a configurarsi come una forma di discriminazione al contrario. Chiaro in tal proposito è stato nei mesi scorsi Elon Musk, ormai accreditato tra i più fidati consiglieri di Trump, apostrofando l’acronimo DEI come “un’altra parola per dire razzismo”. Analogo il sentimento del vicepresidente JD Vance, che nel giugno 2024 presentava al Congresso il cosiddetto Dismantle DEI Act, identificando il DEI come “un’ideologia distruttiva che genera odio e divisione razziale”.
Niente di nuovo per Donald Trump, che già durante il suo primo mandato presidenziale, nel 2020, firmava un ordine esecutivo per vietare i programmi federali DEI, subito revocato dal suo successore Joe Biden.

Donald Trump e J.D. Vance
Donald Trump e JD Vance

Trump contro le politiche DEI “immorali e illegali”

Al suo secondo mandato, più agguerrito su tutte le cause che hanno portato oltre il 50% degli americani a rieleggerlo, Trump ha raddoppiato gli sforzi per distruggere l’ideologia woke, disposto a mantenere la promessa elettorale di avviare un profondo cambiamento culturale negli Stati Uniti. Un’operazione che passa tanto dal versante ideologico – in primis con la gravissima negazione, per legge, di ogni altro genere al di fuori del maschile e femminile – che economico. Per porre fine alle politiche DEI, infatti, il neopresidente ha disposto il blocco delle sovvenzioni federali alle istituzioni culturali, alle università e alle aziende pubbliche che si opporranno alla dismissione degli uffici preposti. Al contempo, ha stabilito con un ordine esecutivo che tutto il personale amministrativo federale impiegato finora in programmi per la diversità, l’equità e l’inclusione sia messo in congedo retribuito, prima di procedere al licenziamento. Gli stessi uffici federali dovranno, peraltro, scoraggiare i programmi DEI nel settore privato e nelle università, anche mediante indagini volte ad accertare la conformità di questi programmi.
L’ordine esecutivo firmato da Trump in merito alla necessità di “Ending Radical And Wasteful Government DEI Programs And Preferencing, del resto, parla chiaro (la lingua della propaganda del neopresidente): “L’amministrazione Biden ha imposto programmi di discriminazione illegali e immorali, chiamati “diversità, equità e inclusione” (DEI), praticamente in tutti gli aspetti del governo federale. La pubblicazione di questi piani ha dimostrato un immenso spreco pubblico e una vergognosa discriminazione, che finisce oggi.  Gli americani meritano un governo impegnato a servire ogni persona con pari dignità e rispetto e a spendere le preziose risorse dei contribuenti solo per rendere grande l’America”. Un provvedimento che fa il paio con l’ordine che si prefigge di porre fine alle discriminazioni tornando a garantire opportunità in base al merito: “Oggi, istituzioni influenti della società americana adottano e utilizzano criteri di selezione immorali, pericolosi e umilianti basati sulla razza e sul genere, con il pretesto di perseguire la cosiddetta DEI. Le politiche illegali dei programmi DEI non solo violano il testo e lo spirito delle nostre leggi federali sui diritti civili, ma minano anche la nostra unità nazionale, poiché negano, screditano e minano i tradizionali valori americani del duro lavoro, dell’eccellenza e del successo individuale. […] Gli Americani sono stati testimoni in prima persona delle conseguenze disastrose di una discriminazione illegale che ha dato priorità all’identità delle persone anziché a ciò che le persone sono capaci di fare”.

Washington Smithsonian Institution National Museum of African American History and Culture NMAAHC USA
Washington, Smithsonian Institution – National Museum of African American History and Culture (NMAAHC) © Alan Karchmer

Le conseguenze sui musei americani. Il caso della National Gallery of Art e della Smithsonian

Ad allinearsi al nuovo orientamento politico sono già state, tra le istituzioni culturali statunitensi, due importanti realtà museali come la National Gallery of Art di Washington e la Smithsonian Institution (polo che comprende 21 musei nazionali, tra cui l’Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, la National Portrait Gallery e lo Smithsonian American Art Museum). Entrambe hanno annunciato la chiusura dei rispettivi dipartimenti per le diversità, avviando un pericoloso processo di negazione delle politiche di accessibilità e inclusione – peraltro sancite tra le priorità che identificano il ruolo di un museo nella definizione fornita dal’’ICOM – che potrebbe presto fare proseliti.
Proprio la National Gallery of Art aveva promosso, quattro anni fa, una campagna di rebranding da 820mila dollari fondata su diversità, equità e inclusione. Solo qualche giorno fa, nel weekend che ha preceduto l’insediamento di Trump, il museo ha invece ospitato il gala organizzato dal vicepresidente Vance per raccogliere finanziamenti per sostenere il governo in carica. E a oggi, oltre a dismettere l’ufficio DEI, il museo – che riceve circa l’80% del suo budget da sovvenzioni federali – ha anche rivisto i valori esplicitati sul suo sito web, eliminando le parole diversità, equità e inclusione in favore delle più caute “welcoming and accessible”.
Pochi giorni dopo, anche la Smithsonian Institution ha informato i suoi dipendenti sulla decisione di chiudere il dipartimento DEI: tra le più grandi e articolate istituzioni culturali degli Stati Uniti, la Smithsonian riceve dal governo federale quasi 2/3 del suo budget annuale, che ammonta a 1 miliardo di dollari. A quanto si apprende, però, l’organizzazione continuerà a impegnarsi per garantire la piena accessibilità a tutti i visitatori dei musei del circuito.

Il sistema culturale statunitense è sotto attacco?

Intanto la Association of Art Museum Directors si pronuncia sulla difficile situazione dei musei statunitensi a fronte delle nuove regole dettate dalla Casa Bianca: nella necessità di rispettare la legge, l’obiettivo primario resta quello di concentrarsi sulla qualità dell’offerta, senza rinunciare a tutelare le diversità, che contribuiscono ad alimentare la qualità.
Ma i campanelli d’allarme, per la tenuta del sistema culturale statunitense, rischiano di moltiplicarsi. Durante il suo primo mandato, Trump aveva ripetutamente tentato di tagliare drasticamente o di eliminare i finanziamenti alle agenzie federali per le arti e la cultura, come la National Endowment for the Arts o l’Institute for Museum and Library Services. E nel primo giorno del nuovo mandato il Presidente ha confermato la sua ostilità verso la cultura, revocando l’ordine esecutivo 14084 sulla “Promozione delle arti, delle discipline umanistiche e dei servizi museali e bibliotecari“, emanato nel 2022 dell’amministrazione Biden per riconoscere come fondamentali per la democrazia e la società le arti, le discipline umanistiche, i musei e le biblioteche, e implementare gli investimenti federali nelle infrastrutture culturali ed educative. L’abrogazione sancita da Trump potrebbe quindi avere gravi implicazioni per la sopravvivenza di biblioteche, musei e istituzioni culturali, indebolendo il loro ruolo sociale. Con conseguenze di lungo termine sull’istruzione, il senso civico, l’identità culturale delle diverse comunità.

Livia Montagnoli

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