Arte, colonialismo e identità sradicata. Succede in due film da vedere su Mubi

“Damohey” e “Pepe”, arrivati sulla piattaforma di streaming indipendente dopo i successi allo scorso Festival di Berlino, ci aiutano a riflettere sulla rilevanza del postcolonialismo nel contemporaneo, attraverso la lente dell'arte

Sono di recente arrivati su MUBI, dallo scorso Festival di Berlino, sia l’Orso d’Oro Dahomey, di Mati Diop, sia il Premio alla miglior regia Pepe, di Nelson Carlo De Los Santos Arias. Questi e altri film (come per esempio Pacifiction di Albert Serra) segnano un nuovo passaggio nella riflessione sul postcolonialismo attraverso il prisma delle arti figurative e performative. Nel primo caso abbiamo il ritorno di alcune opere d’arte africane nello stato del Benin, visto dal punto di vista degli abitanti locali (o meglio, di una delle statue; nel secondo, una riflessione molto più astratta, e forse per questo più veritiera, su certe dinamiche intimamente neocoloniali. Mubi finalmente li porta su piattaforma, ed è lo stimolo per riflettere su due film che dialogano, sia tra di loro che al loro interno, con il tema del colonialismo e dell’identità sradicata.

“Pepe” e “Dahomey”, due film tra colonialismo e arte

Documentario il primo, docu-fiction o il secondo, in entrambi i casi la voce narrante è quella, distorta e ultraterrena, del “trofeo” di caccia: espatriato e ucciso nel caso di Pepe, museificato e rimpatriato nel caso di Dahomey (una statua chiamata semplicemente “26”, come da numero di catalogo). Dahomey segue il ritorno di 26 tesori reali saccheggiati nel 1892 dalle truppe francesi al Regno di Dahomey, appunto, nell’attuale Benin. La registra franco-senegalese Mati Diop racconta con sensibilità le implicazioni di questo rimpatrio: per la popolazione locale, si tratta di molto più che opere d’arte, sono simboli di identità, memoria storica e dignità ritrovata. Attraverso le interviste agli abitanti e la narrazione di storici ed esperti culturali, il film svela le cicatrici ancora aperte del colonialismo, enfatizzando la necessità di una restituzione sia materiale che simbolica del patrimonio sottratto. In netto contrasto, Pepe abbandona in parte il registro documentaristico e si avventura in un racconto simbolico e surreale. Al centro del film c’è un elefante, soprannominato Pepe, portato dalle colonie alle Americhe come trofeo e simbolo di potere. La narrazione, che si sviluppa in parte attraverso la voce immaginaria dell’animale, è una meditazione sull’esilio e la perdita: l’elefante diventa una potente metafora delle vite e delle culture sradicate dal loro contesto originario e manipolate per fini coloniali, per quanto a commissionare l’operazione non sia una potenza europea ottocentesca, bensì, nel secolo scorso, il narcotrafficante colombiano Pablo Escobar. Un atto di colonialismo non solo nella sua accezione politica e storica, ma anche nel senso lato di devastazione ecologica e spirituale.

Dialogo immaginario tra i protagonisti dei film, Pepe e 26

Dahomey inizia con inquadrature del Musée du Quai Branly, uno dei musei di antropologia culturale più importanti al mondo, lascito di Jacques Chirac alla città di Parigi. Già qui vediamo il paradosso sia della museologia sia dell’antropologia contemporanea: le istituzioni che si sono impossessate indebitamente delle opere d’arte sono le stesse che stimolano un dibattito critico, finanche una restituzione delle opere (seppur molto parziale, poche decine su varie migliaia). Dahomey ci offre il controcampo dell’ex-colonia, sia questo composto dalle immagini dei cittadini beninesi festanti all’arrivo delle statue (forse la scena più emozionante del film) o dal dibattito tra universitari locali che si chiedono cosa fare di questi tesori; e, oltre a questo, il controcampo della statua, che si interroga sul senso del presente in relazione al suo passato. Pepe, nel nostro dialogo immaginario con 26, fa emergere questo paradosso. L’elefante, con la sua presenza ingombrante e il suo silenzio eloquente, incarna la violenza del distacco forzato e l’assurdità dell’esilio. Ma ci dice anche come la possibilità di narrare e narrarsi sia condizionata dalla stessa potenza coloniale (o pseudo-coloniale, nel caso dei narcos colombiani): “Per lo meno in quel momento mi toccò l’esilio e non la morte. Fu così che capii che esiste una gerarchia […]. La mia storia si poté raccontare solo quando divenne la loro”. Salvo poi chiedersi chi siano, questi loro. E rispondersi: “Sì, ho capito. La mia storia ha un senso solo perché è diventata la loro. I bipedi”.

Teorie neocolonialiste nei film “Dahomey” e “Pepe”

In Dahomey si rispolverano poi le teorie dell’ethnic insiderism, secondo cui sono gli appartenenti a una comunità gli unici titolati a parlare della comunità stessa: 26 si interroga su cosa resti di tale comunità a distanza di tempo, e lo stesso fanno i partecipanti al dibattito, che si chiedono come democratizzare il tutto, quanto pretendere dalla Francia (ovviamente parlando in francese), e persino se un’istituzione occidentale come il museo sia la collocazione giusta per tali manufatti, con una ragazza che replica che è necessario desacralizzare l’opera d’arte per apprezzarla in quanto tale: a questo servono i musei. Arte e antropologia si toccano, si scontrano, si invertono. Al centro di tutto questo c’è la statua in sé, che non sa più chi è, e lì sta forse la nota più drammatica di tutto il film: “Questi ricordi mi sussurrano all’orecchio in tante lingue diverse tutto il peso di un passato di cui io sono la traccia. Albergano in me la paura di non essere riconosciuto da nessuno e al contempo quella di non riconoscere nulla”. In Pepe ci sono il contrappunto dell’accademico Edward Said, l’osservazione partecipante dell’antropologo Bronisław Malinowski e il suo approccio olistico – l’idea, cioè, che una cultura debba essere studiata nella sua totalità, considerando interazioni tra economia, religione, linguaggio e organizzazione sociale -, ma c’è anche la sorpresa del fatto stesso di avere una voce e non un corpo, dopo una vita passata ad avere un corpo e non una voce. È qui che Pepe sembra fare un passo oltre: la comunità viene riconosciuta nel momento stesso in cui viene raccontata, e viene raccontata nel momento in cui si ha una voce, e si ha una voce nel momento in cui si è esiliati.

La voce come valore culturale, e viceversa, nei film premiati al Festival di Berlino 2024

Se 26 sente in bocca un vissuto che lo porta a non essere riconosciuto, Pepe va oltre si chiede perché ha la bocca: capisce che ha la bocca perché il suo esilio lo ha fatto diventare una narrazione, una delle tante narrazioni possibili, e l’esule, per il semplice fatto di essere esule, diventa antropologo e guarda. Questo loro ritorna, prepotente, nella definizione della propria identità. Come se l’identità dei protagonisti corrispondesse ai valori culturali che questi fantomatici loro gli conferiscono, valori così lontani nel tempo, nello spazio, nell’ideologia. E forse, in fondo, il loro siamo noi. Noi europei che guardiamo 26 e Pepe, che li premiamo nei nostri festival, che ne parliamo qui. Che attraverso l’arte, e il cinema, e la scrittura, diamo a entrambi un’altra, ulteriore identità, perché sono loro stessi a chiedercela.

Raffaele Pavoni

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Raffaele Pavoni

Raffaele Pavoni

Raffaele Pavoni è un esperto di media, insegnante e giornalista con sede a Firenze. Ha conseguito un dottorato in Storia delle Arti e dello Spettacolo presso l'Università di Firenze e insegna Discipline Audiovisive al Liceo Artistico. Collabora come content creator…

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