Se la nostalgia pervade anche la dimensione del presente e le opere d’arte contemporanea

Tra reenactment e rifacimenti di pratiche, mostre e attitudini, l’opera d’arte si destreggia in un presente che rifiuta la propria cifra per avvitarsi in un tempo saturo di riferimenti a passati altri dominata dalla dimensione cronologica dell’aggiornamento tecnologico

Ognuno di questi ultimi articoli sull’immaginario ‘ipnocratico’ di Donald Trump si chiudeva con una sorta di interrogazione agli artisti, e all’arte contemporanea: non smette di stupirmi, infatti, come soprattutto le questioni legate al tempo e alla nostalgia sembrino drammaticamente sganciate dal cerchio di riflessioni in cui si muove la stragrande maggioranza delle opere di oggi. La settimana scorsa, per esempio, concludevo così: “E l’arte contemporanea? Giusto. L’arte per ora sembra, nei casi migliori, totalmente presa da questo gioco di specchi che a volte può essere anche molto raffinato – ma non granché attrezzata per riflettere criticamente su di esso, ed eventualmente per smontarlo, pezzo per pezzo, riflesso per riflesso.”

La nostalgia nell’arte contemporanea

Che cos’è che rende questi riflessi di riflessi così affascinanti e irresistibili per l’arte del nostro tempo? Come mai è più facile, più comodo adagiarsi nel rifacimento, nel reenactment (di pratiche, di mostre, di intere attitudini se è per questo) piuttosto che farsi attraversare dalla cifra del presente – una cifra che nega la consistenza storica del tempo, avvitandolo e torcendolo?
Già nel farsi queste domande, occorre tenere presente ovviamente alcuni punti fermi: la passione retrodell’arte contemporanea non inizia certo oggi o nell’ultimo quindicennio, ma coincide con l’inizio del postmoderno, ormai quasi cinquant’anni fa, sovrapponendosi e intrecciandosi ad esso. Persino il termine-concetto “nostalgia” non rende più conto di tutte le sfaccettature e sfumature che sostanziano uno spirito molto resistente, e continuamente in trasformazione. Comunque. Dopo un allenamento così intensivo, lungo gli Anni Ottanta e Novanta e poi per tutto il primo lustro del XXI Secolo, è chiaro che la nostalgia stessa – in mancanza ancora di una parola più adeguata – si è non solo diversificata (declinandosi in molteplici territori: letteratura, architettura, cinema, design, moda, musica, arte visiva, politica, economia, società, costume, stili di vita, ecc.), ma ha ampliato a dismisura la sua sfera di influenza. La nostalgia odierna infatti – qualcosa che sfiora la nostalgia della nostalgia della nostalgia – non si sofferma unicamente sul passato, come faceva la nostalgia dei bei tempi andati, ma si proietta decisamente nel futuro e pervade integralmente il presente.

Christian Marclay, Installation view of The Clock, 2010. Courtesy of the artist
Christian Marclay, Installation view of The Clock, 2010. Courtesy of the artist

Il nostalgoritmo del presente

Abbiamo così un intero, resistente immaginario fatto praticamente solo di echi. 
In Nostalgoritmo, Grafton Tanner affronta questi argomenti: “La politica e la cultura di oggi sembrano statiche: non semplicemente bloccate nel passato, ma immobili, congelate, entropiche. Quasi tutti i discorsi o le campagne politiche rinviano a un passato più stabile, e le opere d’arte popolare riprendono stili più antichi. La tecnologia, dal canto suo, sembra essere l’unica cosa che attualmente va avanti. Per molti, la tecnologia è la prova stessa che il tempo sta passando, che stiamo ancora vivendo in un ordine cronologico. Gli aggiornamenti dei software e dei modelli di smartphone continuano a susseguirsi e ogni nuova iterazione è contrassegnata da un nuovo nome e da un numero più alto” (in Nostalgoritmo. Politica della nostalgia, Tlon 2024, p. 22). 
Quindi, il tempo vischioso e amniotico dell’ultimo ventennio punta all’entropia, è fatto internamente di entropia. La tecnologia ha appaltato la nozione di futuro, e la percezione stessa del tempo è quella dell’aggiornamento di un software: l’unica prova “che il tempo sta passando”. 

Il tempo che si avvita e la questione delle opere

Se il tempo cioè non si avvita su se stesso, vertiginosamente, semplicemente va avanti. Passa. Scorre. L’unica fruizione del tempo, nel turbocapitalismo, è il suo consumo accelerato, la sua consumazione. Sta passando, è passato. Stop. Oppure si torna indietro, ma solo per rivedere (consumare) passivamente i prodotti del passato. Ma l’opera d’arte non era quella cosa in grado di costruire una nuova zona spazio-temporale, e un nuovo tipo di percezione, man mano che la occupava? 
Ci troviamo perciò in questo momento stretti, e costretti per così dire, tra una condizione di immobilità e congelamento che genera un tempo senza riferimenti proprio perché pienissimo, saturo di riferimenti che provengono da altri tempi, e dall’altro da un rigido ‘ordine cronologico’, che impone di andare in un’unica direzione, senza deviazioni né digressioni, e di accettare di volta in volta gli aggiornamenti – di accettarli anche volentieri, di buon grado, senza fiatare. E se gli aggiornamenti poi sono sgradevoli, o terribili? Se ci accorgiamo di non volerli affatto, che si fa? A questo, in effetti, serve e servirebbe un tempo modellabile e plasmabile dal basso – un tempo non unidirezionale né frantumato dall’onda degli eventi – ma aperto agli spostamenti, alle dislocazioni, alle invenzioni. 

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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