Fenomenologia di Lucio Corsi. Un artista che squarcia la grande noia di Sanremo
Talento e ispirazioni di un artista non sanremese, che conquista un barbosissimo Sanremo smitizzando il senso della competizione. Dalla nicchia dell’indie al grande pubblico, Lucio Corsi è diverso da tutto il resto. E convince per quella grazia scanzonata, che attinge da tanti mondi creativi e non si piega al mainstream.
![Fenomenologia di Lucio Corsi. Un artista che squarcia la grande noia di Sanremo](https://www.artribune.com/wp-content/uploads/2025/02/lucio-corsi-con-il-look-della-prima-serata-di-sanremo-1-1024x539.jpg)
“Non sono altro che Lucio”, chiosa in coda al suo brano, sussurrando gli accordi finali e porgendo al pubblico un’innata stravaganza gentile. Più che una nota d’umiltà, un’aderenza affettuosa alle cose, a partire dal proprio riflesso nello specchio, con la mossa elegante di chi si sfila dalle ossessioni competitive, dal bisogno di farcela a tutti i costi, dall’imperativo ipertrofico delle aspettative. Lucio Corsi non è altro che Lucio, una strofa senza peso, una linea a zig zag, un sorriso infantile, uno strappo improvviso, il ragazzo sull’altalena, il menestrello di una fiaba aliena. Quel bambino con molti sogni e la paura del buio: voleva essere un “robot” o un “lottatore di sumo”, ma è diventato nessuno, “invece che una stella, uno starnuto”.
![Illustrazione di Giulio Melani per Volevo essere un duro, 2025](https://www.artribune.com/wp-content/uploads/2025/02/illustrazione-di-giulio-melani-per-volevo-essere-un-duro-2025-2-819x1024.jpg)
La canzone di Lucio Corsi a Sanremo 2025
Volevo essere un duro, intona passeggiando con leggiadra ironia e con grazia d’altri tempi, tra le strofe di questo piccolo brano-manifesto presentato a Sanremo. Un testo finalmente diverso, nel trionfo dei buoni sentimenti e degli amori preconfezionati, che poggia su un registro linguistico tanto semplice quanto ricercato. Sono le immagini delicate a funzionare, e il loro modo di incastrarsi all’asciutta melodia, sostenendo il peso di una questione non banale. Il diktat del traguardo, la mania della perfezione e della vittoria, le pressioni che inquinano il quotidiano di ognuno, nell’inconsapevole resa a uno strisciante ricatto sociale, vengono spazzate via da una dichiarazione di umana debolezza, senza fare un dramma di concetti come “fragilità”, “paura”, “fallimento”. Temi enormi, che qui diventano una breve dichiarazione esistenziale.
E anche il Festival, alla fine, resta un gioco leggero: “Codice 03“, scrive sui social, “ma votate chi vi pare, tanto la musica non è una gara“. La vittoria del resto è già nel consenso ampio, che insolitamente ha subito messo d’accordo sala stampa e pubblico da casa. Un palcoscenico, quello di Sanremo, che certo offrirà una consacrazione nuova a questo trentenne nato a Grosseto, cresciuto tra le campagne di Vetulonia, dopo anni consumati perlopiù tra circuiti di nicchia: dal tour con i Baustelle e con Brunori SAS nel 2017, arriva nel 2023 ad aprire il concerto degli Who a Firenze, conquistando nello stesso anno il premio come “Miglior artista indipendente” al Meeting delle etichette indipendenti e di recente vestendo i panni di un giovane cantautore nella terza stagione di “Vita da Carlo”, la serie di Carlo Verdone su Paramount. Tre album all’attivo (più la raccolta d’esordio del 2015 con i due primi EP), uno atteso per il prossimo marzo – Volevo essere un duro – Lucio Corsi continua a coltivare la sua scrittura onirica, collezionando canzoni che sembrano favole, filastrocche, storie di miracoli e avventure, formule magiche, illuminazioni, taccuini segreti, album di famiglia: ci sono uomini in cerca di un paio d’ali, ragazze trasparenti come nuvole, distese di neve, pianeti, cumuli di conchiglie lasciate in cambio di orme dal mare, scale issate verso il cielo, amori in fondo a giornate di sole, solitudini metropolitane, paesaggi incantati, animali volanti, parlanti, avventure fra tetti, autogrill, foreste, astronavi.
Così, sbarcando all’Ariston come una creatura lunare, finirà per mangiarsi quel palco con un pugno di note, con tutta la sua purezza, con tre strumenti insieme – chitarra, pianoforte e voce – e con un look modellato su un disallineamento sincero. Lucio Corsi non assomiglia a nessuno, lì a Sanremo (e non solo). E canta qualcosa di autentico, come la sua faccia dipinta di bianco, maschera di un Pierrot caduto giù dalla luna, perso tra prati e maree, poi rimbalzato tra galassie ulteriori in sella a una canzone nuova.
Il 75° Festival di Sanremo e la luce di Lucio Corsi
È lui la novità di questo Festival privo di picchi, di rotture, di polemiche succose, di riflessioni profonde, di tentativi di sperimentazione. Un Festival solo a tratti piacevole, che avanza sottotono nel segno della tradizione, dei siparietti-cliché, del nazionalpopolare – non è mancato nemmeno l'”originale” videomessaggio del Papa sulla musica che unisce i popoli e la guerra che li divide – mentre emergono fin qui giusto la personalità radiosa di Bianca Balti o l’ironia geniale del maestro Nino Frassica.
Un Festival che, in fatto di canzoni, trova qualità nella splendida ballata di Brunori SAS, L’albero delle noci, imbevuta di sonorità alla De Gregori, ma in linea con la sua personale cifra cantautoriale: solita commossa dedica di un padre a un figlio, stemperata però da una scrittura raffinata e da una melodia che dà respiro, robustezza. Poi davvero poco altro, tra cui il graffio dolce e suadente di Joan Thiele, cantautrice poliedrica, magnetica, ricercata, sintonizzata su registri internazionali, o un ritrovato Achille Lauro, riemerso dopo un periodo di buio grazie alla pluripremiata Amore disperato e al gradimento trasversale registrato a X Factor, oggi a Sanremo con un buon pezzo malinconico, chiaroscurale: finalmente accantonate le velleità barocche e un po’ patetiche da performer, elegantissimo in Dolce e Gabbana, si trastulla nelle vesti di ex ragazzo punk, trasformato in aristocratico chansonnier di borgata.
E non ha brillato l’osannato Cristicchi, arrivato ai cuori della vasta platea con un pezzo che sceglie un registro facile, mestamente retorico, per parlare di genitori sofferenti e di figli accudenti, impigliandosi in un’inutile melassa e rinunciando a una struttura musicale, senza trovare una parola alta che compensi; riesce a fare meglio persino Fedez, a proposito di narrazione del dolore, con un brano su depressione e psicofarmaci, inaspettatamente duro, musicalmente attuale, interpretato (al contrario di un Cristicchi sperduto e stonato) con piena convinzione.
E in tale sbiadito scenario, nel mare di insulsi dejà vu, Corsi è una gemma diversa, per più motivi racchiudibili in quell’unica abusata parola, che lui veste in scioltezza, senza farci troppo caso: Lucio non è altro che un “artista”, per fragilità e per vocazione, senza orpelli, senza l’ansia di doverlo dimostrare, senza altisonanti collaborazioni da ostentare. Gli basta quella luce, la stessa di cui è fatto il suo nome, la stessa che i bravi musicisti e scrittori cercano tra gli accenti, i timbri, le pause, le visioni, nelle trame di suoni e di parole. Un fatto di cura e di linguaggio, non certo di pretesti strappalacrime o di convenzioni a buon mercato. E quando canta “I girasoli con gli occhiali mi hanno detto stai attento alla luce e che le lune senza buche sono fregature, perché in fondo è inutile fuggire dalle tue paure”, sta ancora ricordando l’intelligenza dell’imperfezione e la potenza della bellezza non conforme, che bisogna imparare a gestire: guardare dritto dentro al sole equivale a non vedere.
![Lucio Corsi in Gucci in uno scatto di Mick Rock](https://www.artribune.com/wp-content/uploads/2025/02/lucio-corsi-in-gucci-in-uno-scatto-di-mick-rock-2-891x1024.jpg)
Lo stile di Corsi, da Gucci al look fai da te
Una questione di luce, dunque, e anche di stile. Mondi che vivono già negli abiti di scena, non diversi oggi da quel che sfoggia abitualmente ai suoi concerti: dalla maglietta di Gatto Silvestro ai cappelli colorati, dal cerone bianco agli stivaletti retrò, dalle tutine aderenti al bolero giallo con spalline iper strutturate, quasi delle ali artigianali ricamate. Roba tirata fuori dall’armadio, da un vecchio baule, da una fantasia che conosce la moda, un po’ la saccheggia e poi se ne infischia. Ironico bricoleur, indie che più indie non si può, resistente alle stesse passerelle che calca ed ha calcato: quella sanremese, a cui non si uniforma con un tipico brano ad hoc, restando fedele al suo repertorio; e quella del fashion, che ha conosciuto bene nel 2017, sfilando a Palazzo Pitti per la collezione Gucci Cruise, come amata musa di Alessandro Michele (insieme a Francesco Bianconi dei Baustelle, produttore del suo terzo album). E di Gucci erano gli splendidi capi indossati in alcuni videoclip, diretti in forma di piccoli film dall’amico fraterno Tommaso Ottomano.
Per questo primo Sanremo Corsi dichiara però di aver fatto tutto da solo: nessuno stylist o abito sartoriale su misura, niente che non sia opera sua, come a voler completare il quadro fino all’ultima pennellata, in barba anche alla gara degli outfit e dei brand. Perché una cosa non esclude l’altra: sperimentare con la moda, non snobbando il sistema accanto a un creativo come Michele, e poi calcare il palco più importante rinunciando a ogni espediente patinato.
Lo hanno paragonato alla teatralità gender fluid del giovane Renato Zero, all’arlecchino rock di Alberto Camerini, alla lirica leggiadra di Alberto Fortis, che in questi giorni gli ha anche regalato endorsement, al tocco lieve di Ivan Graziani, che è effettivamente un suo riferimento antico dal punto di vista musicale. Eclettico, difficile da incasellare. E con personalità da vendere. Che dovrebbe essere la norma, per un artista, ma che ormai pare un’anomalia, nella dittatura dorata dei talent show, nella debolezza di personaggi costruiti in serie, secondo standard a cui nessuno si sottrae, nella noia di canzoni tutte uguali, scritte dagli stessi quattro autori al servizio di etichette che la ricerca non sanno cosa sia: un fattore che chiede tempo, rischio, autonomia, concentrazione. La legge del marketing guarda altrove. Merito in tal senso alla Sugar di Caterina Caselli, che sostiene Corsi dal 2020, anno del suo secondo album in studio.
Le collaborazioni di Corsi con registi e fotografi
Risale alla collaborazione con Gucci la campagna firmata nientemeno che da Mick Rock, fotografo di grandi star del pop e del rock, colui che immortalò uno smagliante David Bowie in immagini divenute iconiche, legate soprattutto al periodo di Ziggy Stardust. Con una maglia tempestata di cristalli e una collezione di anelli zoomorfi, Lucio Corsi diventa per lui una figura malinconica, sospesa contro un fondo neutro color ruggine, con tutta la sua eleganza glamrock e quell’espressione da fanciullo, a contrasto con la posa severa.
Al giovane Francis Delacroix dedica invece una delle canzoni del nuovo album: è un grande amico, un fotografo in auge tra gli ambienti musicali e dei fashion magazine, taglio anticonformista, gusto, rigore e uno sguardo ai maestri del pop e dell’underground. Lucio lo racconta come una figura mitologica, un “soldatino di piombo”, un “papero col frac”, uno “degli animali dell’Arca”, “impegnato in via dei Matti ad insegnare a una mosca come si fa a dar del filo da torcere ai ragni”; Francis, dal canto suo, lo omaggia con alcuni splendidi scatti, incluso il ritratto languido che accompagna Volevo essere un duro, occhi magnetici dietro i vetri sporchi di un’auto, un primo piano stretto tutto ombre e nostalgie.
È sempre il “fratello” Tommaso Ottomano, musicista e regista – coautore della canzone in gara, con lui sul palco alla chitarra elettrica – a firmare il corto dedicato al pezzo di Sanremo: tra registro comico e surreale, si tratta di un remake in salsa toscana del videoclip di We’re Not Gonna Take it, pezzo dei Twisted Sister, icone dell’Hair Metal americano anni ’80, con Pieraccioni e Ceccherini tra i protagonisti di un bizzarro episodio familiare, insieme a un bimbo asserragliato per protesta nel rifugio tridimensionale della sua immaginazione.
Suggestivi i diversi progetti video realizzati con Ottomano, spesso costruiti tra i meravigliosi paesaggi della Maremma, ispirazione costante e origine del suo immaginario. Cosa faremo da grandi? è un altro micro film che racconta la pesca miracolosa di tre marinai, in cui Lucio, nella luce viola del tramonto, mette in fila dei versi prima di iniziare a cantare: “Questa chitarra è Surprise / Pescata con le reti / Porta lo stesso nome di una barca / Quella che fece il giro del pianeta Terra / Vedendo solamente acqua / Sono forzieri pure le conchiglie / Se le tue orecchie cercano rumore / Hanno pescato con le reti la chitarra / Il forziere che cercavo aveva dentro una canzone”.
L’eclettismo di Lucio Corsi, tra spirazioni e passioni
Restando in tema musica, c’è un mix di cantautorato italiano e rock internazionale nelle sue corde e nelle sue radici: ci mette dentro Graziani, Paolo Conte, i Genesis, Bob Dylan, Peter Grabriel, i T.Rex, Rendy Newman, mentre a Sanremo, per la serata delle cover, celebrerà Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno, regina del Festival nel 1958, “la canzone delle canzoni, – spiega – poiché l’elemento della musica è l’aria”. Ad accompagnarlo tra le “correnti” del mitico brano ci sarà Topo Gigio, che in tv esordì nel ’59, proprio con la voce di Modugno (primo cantautore a vincere la competizione sanremese): “Anche i topi possono volare. Topo Gigio mi ha insegnato come non diventare una marionetta, mi ha insegnato come fare a tagliare i fili di chi ti vorrebbe far muovere a suo piacimento”. Un’altra piccola fiaba da mettere in scena, connettendo realtà e fantasia, con tutte le metafore e le acrobazie del caso. Oppure ancora, rubando attimi dai backstage, lo si scova a intonare quel meraviglioso cult che è Il tuffatore di Flavio Giurato, dall’omonimo album dell’82, una prova di sperimentalismo poetico e musicale di rara bellezza, conosciuto da pochi e ancora così attuale.
![Lucio Corsi e Topo Gigio, in duetto per la serata delle cover a Sanremo](https://www.artribune.com/wp-content/uploads/2025/02/lucio-corsi-con-topo-gigio-2-840x1024.jpg)
Questo dunque è Lucio Corsi, in un carosello di memorie, eredità, ispirazioni. E tra le passioni c’è anche la pittura, avendo coltivato il disegno fin da bambino, circondato dai dipinti della madre appesi alle pareti di casa. Per mestiere, Nicoletta Rabiti, lavora nel ristorante della mamma, a Castiglione della Pescaia, ma per svago dipinge, con talento vero. Sono sue le cover di tutti gli album del figlio, incluso il prossimo in uscita: quella per Bestiario musicale (2017) fu realizzata appositamente, ispirandosi ai temi del disco, un “Cantico dei cantici” ambientato tra i boschi e le vecchie favole della Maremma. È uno di quei casi in cui le ragioni emotive di una scelta non escludono quelle della qualità: sono illustrazioni delicate, metafisiche, essenziali, frutto di un immaginario intimo, di cui Lucio si è evidentemente nutrito, ereditandone la sensibilità. E poi l’amore dichiarato per il più grande degli outsider artist, Antonio Ligabue, ed è evidente cosa lo abbia incantato della sua pittura, tra quella cifra naïf novecentesca e la frequenza visionaria, tutta tragedia e candore.
Di recente chiede all’illustratore Giulio Melani di declinare visivamente il brano di Sanremo: 260 parole e una serie di personaggi a cui dare una forma e uno stile, come una collezione di figurine. Ci sono il Robot, il lottatore di sumo, lo spaccino in fuga da un cane lupo, la gallina dalle uova d’oro, i campioni di sputo, lo scippatore che ti aspetta nel buio, la gazza ladra che ti ruba la fede, i girasoli con gli occhiali, le lune senza buche.
![Lucio Corsi, "Volevo essere un duro", 2025 - copertina dell'album di Nicoletta Rabiti](https://www.artribune.com/wp-content/uploads/2025/02/lucio-corsi-volevo-essere-un-duro-2025-copertina-dellalbum-di-nicoletta-rabiti-768x768.jpg)
![Lucio Corsi, Cosa faremo da grandi?, 2020 - immagine di copertina di Nicoletta Rabiti](https://www.artribune.com/wp-content/uploads/2025/02/nicoletta-rabiti-quadro-per-la-cover-di-cosa-faremo-da-grandi-2020-768x768.jpg)
![Lucio Corsi, Bestiario musicale, 2017 - Copertina di Nicoletta Rabiti](https://www.artribune.com/wp-content/uploads/2025/02/lucio-corsi-bestiario-musicale-2017-copertina-di-nicoletta-rabiti-768x768.png)
![lucio corsi la gente che sogna 2023 immagine di copertina di nicoletta rabiti Fenomenologia di Lucio Corsi. Un artista che squarcia la grande noia di Sanremo](https://www.artribune.com/wp-content/uploads/2025/02/lucio-corsi-la-gente-che-sogna-2023-immagine-di-copertina-di-nicoletta-rabiti-768x605.jpg)
![Il retro copertina di "Volevo essere un duro"](https://www.artribune.com/wp-content/uploads/2025/02/il-retro-copertina-di-volevo-essere-un-duro-768x768.jpg)
Non manca poi l’amore per la poesia, che per un cantautore è materia quotidiana. Musa autentica è Emily Dickinson e ancora una volta le connessioni sono chiare, nella brevità e nella sobrietà di versi leggiadri, capaci di incidere, a volte di ferire. Un romanticismo allo stato gassoso, che lascia levitare le parole sul foglio. Corsi inserì una sua poesia in apertura del videoclip di Freccia Bianca, diretto sempre da Ottomano, con abiti di Alessandro Michele: “Per fare un prato occorrono un trifoglio ed un’ape. / Un trifoglio e un’ape. / E il sogno/ Il sogno può bastare / se le api sono poche”.
Infine la passione per il motociclismo, unico sport mai seguito: correre in moto, spiega, ha a che fare con l’aria, proprio come la musica, la più immateriale delle arti, aerea, imprendibile. E poi il fattore tempo, che per i motociclisti diventa velocità, per i musicisti ritmo, flusso. E che per lui, ammette, si traduce anche nella paura di invecchiare: dunque vivere senza sprecare un grammo di desiderio, di creatività. “Ma non ho mai perso tempo / È lui che mi ha lasciato indietro”, canta a Sanremo, nel suo inno alla possibilità di perdersi, di rallentare, di correre eppure non arrivare.
Lucio Corsi è allora quel vincitore del Festival che probabilmente non arriverà alla vittoria, nonostante l’ottima accoglienza in un contesto non suo. Dai promontori della sua isola intima resterà ad osservare, a divertirsi, a cercare canzoni. In fondo fare musica è roba da “tuffatori”, per dirla con Giurato: tuffarsi non per per gareggiar né misurarsi il coraggio, piuttosto “per rinascere ogni volta, dall’acqua all’aria”.
Helga Marsala
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