La voglia di male: una malattia collettiva che l’era atomica esaspera

Lo spirito di denuncia, la sensibilità al male, la traduzione del pensiero in opere: ecco come gli artisti interpretano l’autolesionismo di specie nell’epoca moderna

Esiste una malattia mentale che potremo attribuire a tutta l’umanità, o quantomeno un’ossessione collettiva che ha cambiato comportamenti e ha condotto a vere patologie del pensiero? Una mostra allestita a Parigi presso il Musée d’Art Moderne ci parla delle follie scaturite da quella psicosi collettiva che è stata ed è l’“era atomica”. Questa definizione fu coniata dal giornalista del New York Times Wiliam L. Laurence nel 1945, dopo aver visto il primo test di esplosione nel New Mexico, ma ancora funziona. Abbiamo creduto di poterla archiviare negli ultimi anni della guerra fredda e poi ancora di recente, ma i focolai bellici che tormentano Russia, Ucraina e il Medio Oriente, generando una reazione a domino che è arrivata a coinvolgere la Corea del Nord e i rapporti interni della Comunità Europea intorno al tema armamenti, hanno bruscamente riportato indietro l’orologio. Siamo sottilmente terrorizzati e gli artisti mostrano questa paura.

La voglia di male nelle opere degli artisti contemporanei

Spostandoci dalla mostra parigina, pensiamo alle presenze mutanti che Pierre Huyghe porta nel suo lavoro, per esempio gli uomini vivi, muti, mascherati come fossero mosche, che hanno seguito i visitatori della sua ultima personale a Venezia. Ripercorriamo il lavorio di Hubert Duprat, che toglie alle larve la loro protezione in modo che possano ricostruirla con ciò che lui gli mette a disposizione, dall’oro alle pietre dure: diventano così dei gioielli viventi ma anche delle mostruosità che ricordano le bizzarrie venute a galla nei corpi deformati dalle radiazioni nucleari. Ricostruiamo le atmosfere di Rui Chafes, spazi verdi che ci tolgono l’equilibrio nei quali fluttuano sculture che sembrano il cosmo curvo oppure il nuovo potente ordigno che lo minaccia. Rivediamo l’impazzire dei vegetali, come in Stalker di Andrej Tarkovskij, nei giardini con statue mezze umane e mezze di rampicanti messi in scena da Precious Okoyomon, o allo sfuggire a ogni regola e dimensione delle piante esposte da Ugo Schiavi.

Il nucleare nelle opere degli artisti

All’inizio del secolo ci sono state, è vero, illusioni sulla potenza benefica del nucleare come mezzo per ricostruire il mondo con energie senza pericoli: a questa specie di misticismo futuribile hanno dedicato alcune delle loro opere Hilma Af Klint, Vasilij Kandinskij, molti astrattisti geometrici che hanno visto nella nuova fisica una maniera per ricostruire anche la metafisica, proponendo un’immagine pacificata, laica, addirittura magica di un mondo in cui materia ed energia incominciavano a scambiarsi continuamente i ruoli. Ma le illusioni sulla rinascita umanistica che sarebbe potuta venire dalle ricerche atomiche si dovettero scontrare, però, con le deflagrazioni che colpirono poi Hiroshima e Nagasaki. Perché le atomiche vennero sganciate? Al di là delle contingenze storiche, la ragione era già stata individuata da Albert Einstein e Sigmund Freud nel loro scambio di lettere sulla natura della guerra (1933): la conclusione di entrambi, anche se espressa in maniera diversa, è che l’uomo soffre di una tendenza ineluttabile all’autodistruzione, che si accompagna alla smania di vita ma la boicotta clamorosamente. La pulsione di morte ci attanaglia a tal punto che, da disagio individuale, diventa impegno collettivo, investimento, ricerca, raggiungimento di altissimi risultati tecnologici. Una follia funzionale, dunque, ma che resta follia.  

Enrico Baj, Montagna con sole, 1957. Museo del Novecento, Collezione Boschi Di Stefano ©Comune di Milano.Photo Mauro Ranzani
Enrico Baj, Montagna con sole, 1957. Museo del Novecento, Collezione Boschi Di Stefano ©Comune di Milano.Photo Mauro Ranzani

L’autolesionismo di specie secondo i filosofi

Sappiamo bene che è dallo studio sulle armi che nasce la maggior parte della ricerca in campo civile. Se il nostro è un “pianeta infetto”, come lo definisce Donna Haraway, siamo noi Homo Sapiens che lo abbiamo ammalato. Yuval Noah Harari, autore già nel 2011 del libro Sapiens in cui metteva in evidenza l’aggressività della specie rispetto alle tipologie di Homo che gli hanno ceduto il passo, segnala in Nexus (2024) come la nostra abilità maggiore sia quella di costruire reti comunicative; ma spesso queste hanno come fine la guerra, il potere, la malvagità di chi organizza genocidi e distruzioni su vasta scala: il nostro comunicare si mette continuamente al servizio dell’autolesionismo di specie. Ciò non poteva che condurre a un termine delle grandi narrazioni, intese come religioni o ideologie o sguardi utopici sul futuro. Così l’intera umanità, ridotta a progettare la vita senza direzioni pregnanti, si contorce in una selva di frammenti fatti di piccole storie, di storytelling adatti a vendere un prodotto, di epopee così minime da toglierci la speranza e dall’esito depressivo: è quanto afferma Byung-Chul Han nel suo La crisi della narrazione (2024). Non riusciamo a farci nulla: siamo diventati incapaci di scrivere non solo l’avventurosa Odissea di Omero, ma anche quella minima e sgangherata di James Joyce.

L’esperienza del male mei movimenti artistici

La progressiva restrizione dello spazio di meraviglia, che era il salvacondotto collettivo verso progetti di vita o almeno verso una vitalità felice, è stato il risultato di un secolo di paura intensa centrata su un desiderio di morire connaturato all’uomo stesso, ma aumentato dalla certezza, più chiara a partire dagli Anni Cinquanta, che l’eventualità di una totale distruzione del pianeta è tutt’altro che fantascienza. Nel correre dietro alla realtà, anche la fantasia dei letterati ha il fiatone.
Ci sono stati momenti in cui gli artisti hanno cercato di sdrammatizzare il pericolo: pensiamo al Movimento Nucleare di Enrico Baj, Sergio D’Angelo, Piero Manzoni, Asger Jorn tra gli altri. In continuità con l’adesione del Futurismo alla tecnologia, nel loro primo manifesto (1951) si legge: “i Nucleari vogliono abbattere tutti gli “ismi” di una pittura che cade inevitabilmente nell’accademismo, qualunque sia la sua genesi. Essi vogliono e possono reinventare la Pittura. Le forme si disintegrano: le nuove forme dell’uomo sono quelle dell’universo atomico”. Le opere però sono solo versioni ironiche della tendenza alla distruzione. E allora meglio un dripping di Pollock, in cui la materia si sfarina e perde la sua coerenza, così come l’individuo perde la voglia di vivere.  Parlarono un simile linguaggio artisti europei come Wols, con i suoi segni disperati o Jean Dubuffet, con la sua descrizione della morte, che nei suoi dipinti materici appare dolciastra come l’odore dei cadaveri degli ostaggi. 

Arte in America: i bunker e l’era atomica

Nelle scuole americane in quel tempo circolava un documentario che insegnava ai ragazzini a proteggersi dal pericolo della bomba, per esempio mettendosi sotto il banco di scuola, tenendosi le mani sulla testa e in altri modi ridicoli e inefficaci: fu un modo per calmare la gente. Ma intanto John Kennedy disse pubblicamente di procurarsi dei rifugi e lui stesso, che sfiorò la guerra o in qualche modo la mise in conto con l’episodio della Baia dei Porci e i rapporti con Cuba, aveva il suo bel bunker in Florida.
La storia ci dice dunque che siamo malati del piacere di provare paura, che sfiorare la catastrofe ci attira. Una maquette di bunker di Thomas Schütte fatta nel 1984, a volte blu come un cielo medievale, nasconde e mostra – come spesso nello spirito dell’artista – la tragedia di questa ambivalenza. L’incoscienza con cui viene perseguita si trova nelle torte nuziali in cui la panna ha forma di fungo atomico, immortalate da fotografie in cui pullulano sorrisi incoscienti.
Certamente continueremo a vivere l’era atomica con il duplice sentimento del terrore e della speranza, cioè con il paradosso per il quale, se mai si arriverà a un’energia pulita di origine atomica, sarà stato passando attraverso l’ordigno più pericoloso e suicida che l’umanità abbia inventato e anche attraverso tragedie civili come gli incidenti alle centrali nucleari di Černobyl (1986) e Fukushima (2011).  Gli artisti continuano a percepire e tradurre questo malessere esaltato, questa psicosi occulta ma pervasiva, questa disabilità del pensiero: per citarne qualche altro, ritroviamo tracce di questa malattia in Chris Burden, Richard Hamilton, Yayoi Kusama, Gary Hill, General Idea, Boris Mikhailov, Raymond Pettibon, Yoko Ono, Luc Tuymans. Tutti sospesi tra spirito di denuncia, senso dell’assurdo e una strisciante rassegnazione alla voglia di male che potremmo pensare inscritta nel nostro stesso DNA.  

Angela Vettese

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Angela Vettese

Angela Vettese

Angela Vettese è direttore del corso di laurea magistrale di arti visive e moda presso il dipartimento di culture del progetto, dove insegna come professore associato teoria e critica dell'arte contemporanea così come, presso il triennio, fondamenti delle pratiche artistiche.…

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