Ricordando Lorenzo Pataro. Morte e talento di un giovane poeta

Ha lasciato impietriti la scomparsa improvvisa di un giovane poeta calabrese, tra le promesse della poesia italiana. Una voce lucida, intensa, ispirata, mai banale. Stimato da autori affermati e dai tanti emergenti che stanno definendo in Italia una scena vitalissima. Lo ricordiamo con un omaggio, tra versi suoi e di poeti amati.

Nelle cose minute, perdute, abbandonate, Lorenzo Pataro cercava la propria idea del sacro. Una luce prossima e insieme remota, coltivata “nei relitti, negli scarti, in ciò che rimane della sua purezza incontaminata”, spiegò in un’intervista. Oggetti, frammenti di natura, memorie sparse, animali selvatici, nidi, tane, vecchie case rurali, aratri, rovi, bauli, fogli di carta, alberi, preghiere: “un universo che semina nel petto / qualcosa di antico e benedetto”, per dirla con un suo verso. Un universo abitato da “Amuleti“, titolo della sua più nota raccolta di poesie, pubblicata nel 2022 per Ensemble, inserita nella prima selezione del Premio Strega Poesia 2023 e giunta in finale al Premio Pontedilegno l’anno successivo. Tutto, in quel mondo antico che ha il chiarore dell’aurora, è allora talismano, reperto sacro, umile veicolo di grazia e di fortuna.
Qui insiste e ritorna la lingua del giovane poeta, articolando il ritmo, i lemmi, i segni e la sintassi di un amore difficile da sostenere; una lingua immune da retorica, traboccante d’infantile candore e di saggezza, di ferite e di suture, lungo minimi passaggi e orizzonti estesi, ricalcati su quelli di campagne e spiagge conosciute, e spinti subito più in là, a farne linee di fuga, proiezioni non euclidee.

Sentire come allora. Bambini-parco-giochi.
Sentire la vita come allora e in un punto
preciso, dentro al petto. Chiaro nitido
pungente. Accorgersi del noto.
Lo spazio tra le cose, tra il piede che si alza
nella corsa e il piede-ancora che tiene.
Polvere, il radioso nello spazio
tra le dita. Sentire un freddo che è lontano,
acuminato. Universo che semina nel petto
qualcosa di antico e benedetto.
In cerchio si osserva la ferita al ginocchio
del bambino, sangue e pelle, il suo frantumo.
Sentire come allora. Farsi tana e nascondersi
era un modo per lasciare il mondo vuoto, farsi
mondo nel mondo e nascondersi nel vuoto
lasciato dalle cose. Qualcuno ci cercava.
E noi acquattati come i morti. In attesa.
Trattenendo il respiro come loro.

amuleti di lorenzo pataro 2023 1 Ricordando Lorenzo Pataro. Morte e talento di un giovane poeta

Morte di un giovane poeta


E in questo bastimento colmo di amuleti, in cui inseguire il contatto con un oltre che sfugge alle parole e che quindi le solletica, Pataro include i morti; quelli sepolti nel cimitero del suo piccolo paese d’origine, Laino Borgo, in provincia di Cosenza, e quelli caduti in ogni tempo e in ogni luogo, scandendo la sequenza matematica dei giorni, dei secoli, delle stagioni. Amuleti anche loro, portatori di protezione e di bene. Strumenti di riconciliazione con la grandezza indecifrata del creato. Significativamente, a dare il titolo a una sezione del libro, è la bellissima frase che chiude una breve poesia:

I morti accatastati come legna
nelle tombe, polvere di semina,
le ossa a brillare accese dai lumini,
i falchi-guardiani a sorvegliare
il loro sonno primordiale.
I morti sono i tarli della neve
.

Lorenzo Pataro oggi è in quella grazia di neve e di polvere, luce ulteriore a misura e dismisura del paesaggio, vita sommersa che continua a nutrirsi d’esistenza, nell’ininterrotta tessitura di memorie e relazioni: di padre in figlio, di comunità in comunità, di generazione in generazione. Lorenzo Pataro è scomparso, improvvisamente, all’età di 27 anni, lo scorso 18 febbraio. La notizia ha iniziato a correre sui social nella notte, esplodendo il mattino seguente in una valanga incontenibile d’affetto, un profluvio di messaggi commossi, sbigottiti. Stimatissimo nel mondo della poesia contemporanea, collaboratore del Foglio e di diverse riviste letterarie, aveva esordito con Bruciare la sete (edizioni Controluna), nel 2017. Nessun’informazione, ad oggi, sulle ragioni di questa morte assurda, avvolta nella discrezione di un silenzio che lascia intuire, che mette in fila domande assordanti, che muove il sentimento corale della responsabilità e ridesta l’assillo intorno al senso delle cose, alla loro fine imminente, al dolore non visto, alle occasioni perse. Al dovere di accogliere, di capire, persino di accettare; e di concedersi il tempo dell’ascolto, oramai così raro.

franco arminio Ricordando Lorenzo Pataro. Morte e talento di un giovane poeta
Il poeta Franco Arminio

Lorenzo Pataro nel ricordo di Franco Arminio

Il poeta Franco Arminio, legato al giovane collega da un rapporto di amicizia e stima, a poche ore dalla tragedia gli tributa un lungo post di addio, che si chiude con le parole dello stesso Lorenzo, versi intensi in cui l’odierno lutto produce un’eco nuova e amara:

Terramadre. Terracarne. Terracielo.
Tornare a questa terra come a un grembo,
a una madre che promette e rassicura.
Avere la pazienza antica del pastore
che ritorna nella sera col sudore benedetto
dai passanti e sorride come fosse
solo quello il suo mestiere.
(…)
Tornare alla terra come fosse una promessa

fatta agli avi, tornare alla terra per renderli immortali.
Tornare a far brillare questa terra,
come a mettere un sigillo o una fiamma
di speranza che rimanga, che renda più vivo
persino l’abbandono, il deserto
lasciato dal progresso e la sua scia.

La poesia fa parte di una raccolta di inediti, dal titolo Parole sparse e ritrovate (2018-2024), inviata via mail ad Arminio e a pochi altri amici domenica 16 febbraio, appena tre giorni prima di morire. E questo ritorno al grembo, ad una “terramadre, terracarne, terracielo”, assume un suono sinistro, ancorché dolce, nel ribadire quell’amore per i luoghi propri e le profondità da calpestare, da sezionare, portando alla luce ciò che resta; nel ridestare l’incantesimo di suoni perenni, di gesti ancestrali, di scampoli di vegetazione; nel celebrare l’armonia leggera del paesaggio, insieme al peso specifico della storia, e continuare a fondersi con tutto questo, a passo accelerato. Forse presagendo l’estremo ritorno e l’imminente destino, lo schianto e la fusione tra le molecole dell’io a quelle degli altri: altre terre, altri corpi, altre eternità a cui appartenere.

Dopo il funerale, celebrato la mattina del 21 febbraio, Arminio è tornato a scrivere, menzionando i genitori e il fratello di Lorenzo:
“Al cimitero per le condoglianze ci sono solo loro, Antonella, Fernando e Giuseppe. Parliamo un poco, sanno che Lorenzo mi aveva scritto pochi giorni fa. Ne parlo anche con le ragazze che hanno letto i suoi versi in piazza. Parliamo del destino che potranno avere le parole del poeta, destino che sarà più lungo della sua vita. Lorenzo aveva un’aria gentile, quell’aria gentile che oggi c’è in tutto il paese. Da lontano si vedono le cime rotonde del Pollino piene di neve. È ancora inverno ma c’è un bel tepore. In un messaggio Lorenzo mi aveva scritto che era stato un inverno duro ma confidava nella primavera. L’inverno si è chiuso addosso alla sua vita. Forse oggi, con questo sole, le cose sarebbero andate diversamente”.

versi di lorenzo pataro sui muri di laino borgo Ricordando Lorenzo Pataro. Morte e talento di un giovane poeta
Versi di Lorenzo Pataro sui muri di Laino Borgo

Lorenzo Pataro e le parole degli altri

In epigrafe, quest’ultima raccolta di inediti – da cui magari deriverà una pubblicazione postuma – riporta un frammento di una tra le più note liriche dell’immensa Cristina Campo, ispirata dalla vista di una teca di vetro, durante una visita ai Musei vaticani. Lì riposavano i corpi imbalsamati di due giovani egizi: “Moriremo lontani (…) / popoli studiosi scriveranno / forse, tra mille inverni: / nessun vincolo univa questi morti / nella necropoli deserta”. Le due salme vennero successivamente separate, con rammarico della poetessa, che in una lettera a un’amica si diceva lieta per aver reso eterna quell’immagine di casuale vicinanza, colta nel comune destino di solitudini, migrazioni, separazioni a cui l’esistenza ci abitua, generando infinite sequenze di amori e disamori.
E c’è un’altra citazione che riemerge, sorprendentemente incisiva, tra le molte che Lorenzo Pataro utilizzava nei suoi scritti o che era solito postare in rete. Altri versi in cui il senso di morte e quello di una vivida bellezza condividono la stessa frequenza, come la vita all’origine e la custodia di ciò che è scomparso. Siamo proprio in apertura del capitolo I morti sono tarli della neve:

I morti continuano a porsi
le stesse domande dei vivi:
rimangono i corsi e i ricorsi
del vivere identici sulle
due rive. In che luce cadranno
tornati alle cellule.


Stavolta a brillare sono le parole di Gabriele Galloni, dalla sua seconda raccolta In che luce cadranno (2018). Un’altra perla sottratta troppo presto alla sete di vita e di scrittura, ucciso a 25 anni da un arresto cardiaco, il 6 settembre del 2020. All’attivo aveva già altre quattro pubblicazioni, Slittamenti (2017), Creatura Breve (2018), Sonno giapponese (2019), L’estate del mondo (2019), a cui si è aggiunta Bestiario di un giorno di festa, pubblicata postuma nel 2020.
Di lui Pataro scrisse: “È stato uno dei poeti più importanti della mia generazione e ci ha lasciato parole indelebili come queste: Ogni cosa ha il suo tempo sotto il cielo; / sii giovane con me prima che un’altra / corrente ci separi – o ci risvegli”. Affinità elettive, per sensibilità e per temi, mentre diventa doloroso, a posteriori, questo bianco e nero di un inno alla gioia e alla giovinezza, quando ancora non dovrebbe essere così a fuoco la certezza della fine, la ferocia del caso che può togliere, abortire, sacrificare. Ma la lingua dei poeti è lingua di veggenza, d’empatia e immaginazione, di spietata consapevolezza. A qualunque età.

caproni Ricordando Lorenzo Pataro. Morte e talento di un giovane poeta

Così le parole degli altri si fanno specchio e nutrimento per quelle di Pataro, in un gioco di corrispondenze che lascia risuonare tra loro biografie e meditazioni di poeti scomparsi, viventi, più o meno lontani. In questo mese incompiuto Lorenzo ha consegnato ai suoi profili social alcune tracce di sé. Una pagina del Foglio con la sua recensione del libro di Vincenzo Corraro Le età del bosco, le fotografie dei murales nel centro storico di Laino Borgo, dove trovano posto alcune sue poesie, o la notizia dell’uscita di una nuova antologia, che lo vede tra gli autori scelti: Orme di luce. Ricognizione della giovane poesia italiana, edizioni Macabor. E poi versi non suoi e brani di letteratura, proseguendo il dialogo silenzioso.

C’è la potenza e la delicatezza di Antonia Pozzi, in una lirica condivisa il 7 febbraio: Pesano fra noi due / troppe parole non dette / e la fame non appagata, / gli urli dei bimbi non placati, […] e ogni lama di luce, ogni chiesa / nera sul cielo, ogni passo / di povere scarpe sfasciate / porta per strade d’aria / religiosamente / me a te”; oppure un passo da Camere separate di Pier Vittorio Tondelli, citato il 5 febbraio: “So di essere anche una persona divertente, di cui è piacevole la compagnia. Ma ora vorrei lo scoprissero gli altri. E d’altra parte io potrò legarmi in futuro, solo a quella persona che – senza che io faccia alcunché – capirà chi io sia dietro a questa facciata triste e scostante. Non voglio sedurre nessuno. Ora, se permetti, aspetto che siano gli altri a sedurre me”.

Poi, mercoledì 12, appare Sera di Febbraio di Umberto Saba, riferimento che oggi punge e raggela:


Spunta la luna.
                      Nel viale è ancora
giorno, una sera che rapida cala.
Indifferente gioventù s’allaccia;
sbanda a povere mete.
                                   Ed è il pensiero
della morte che, infine, aiuta a vivere.

Ancora, nel Biglietto lasciato prima di non andar via di Giorgio Caproni, postato due giorni dopo, sopravvive l’enigma di chi, tra presenza e assenza, nostalgia e dimenticanza, libertà e radicamento, sa che il proprio posto nel mondo non è altro che dentro la parola, prima e dopo tutto:

Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
È stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.

lorenzo pataro tra le colline della sua calabria Ricordando Lorenzo Pataro. Morte e talento di un giovane poeta
Lorenzo Pataro tra le colline della sua Calabria

Morte e vita nei versi di Lorenzo Pataro

Mercoledì 5 febbraio, Lorenzo Pataro cita invece Franco Battiato e l’incipit della sua Alexander Platz: “E di colpo venne il mese di febbraio”. Non sappiamo quanto presagio, quanta meditata cura, quante risonanze profonde e quante casualità ci fossero in questi recenti omaggi. Ma nella sintesi perentoria di un verso di canzone si resta appesi a quella locuzione temporale che spezza la monotonia dei calendari, preannunciando l’irruzione di un evento inatteso. Di colpo. Qualcosa che faccia di una data qualunque il luogo di una svolta, l’epilogo, l’agnizione, lo spannung, la rivelazione, la rottura.
E venne, all’improvviso, l’ultimo febbraio di Lorenzo Pataro. Un mese interrotto, come si interrompe scandalosamente la vita di un ragazzo e insieme la frequenza di una scrittura non comune. Verticale, luminosa, piena, già matura, anche nel pensiero dolcemente coltivato della morte e del suo significato inaccesso.

L’empatia per gli individui e per le loro storie, per i loro oggetti, affetti, amuleti, territori, è la stessa che lo avvicina ai defunti, alla moltitudine di fantasmi percepiti in forma di presenze, di orme, di fotografie, di scarti dimenticati, di testimonianze involontarie. Così Pataro era corpo poetico sensibile, tutt’uno con il corpo e i corpi del paesaggio, in uno splendore di riflessi e di amicizie imbastiti tra uomo, insetto, animale, pianta, elementi-radici:  

Il ramo-lucertola spezzato, l’incavo
del riccio di castagna ad accogliere
il respiro dei dispersi nella luce,
le mani-radici nella terra, i palmi-catini
colmi d’acqua, la fronte che è un viale
in attesa delle foglie.

Intanto, domandandosi “Che cosa ne sarà di questi giorni/malati di una luce e di un sole molle”, intonava la sua poesia come tributo e preghiera per coloro che, prima o poi, avremmo dimenticato:

Penso ai morti del paese a cui non pensa
più nessuno. Gli ingrigiti fiori finti, i fiori secchi,
il gelo che fa tana nelle tombe scoperchiate.
Quanto resta. Cosa resta in una foto
di tutto il mappamondo di un umano.
Una scritta, una data, qualche oggetto.
Cosa resta. Penso a tutti i trapassati
che non lasciano una scia. Benedico
i loro nomi, percepisco il loro sonno
come un ago, la mia notte
nella cruna della loro.

lorenzo pataro 1 Ricordando Lorenzo Pataro. Morte e talento di un giovane poeta

Lorenzo Pataro: poesia come cura

Elio Pecora, nella sua introduzione ad Amuleti, notava come questa “fitta elencazione” di contesti, di segni e di presenze fosse insieme “vigilanza e stupore, attesa trepida e insopprimibile desiderio di essere e di restare”. Una pulsione vitale fortissima, non v’è dubbio, si respira nelle pagine di Pataro. Come sempre accade in chi sente la vita con prepotenza e commozione, desiderando di abbracciarne ogni formula perfetta, ogni ragione ed estensione. Il che significa anche portarne addosso i pesi, la frustrazione del non riuscirci, il rumore della caduta, e quell’orrore del limite pari solo alla necessità di possederne uno. Ma nonostante “l’irreparabile scontentezza” – scrive Pecora – e l’eredità “della negazione e del dubbio, in cui è stato immerso e sommerso il Novecento”, non si assiste mai, nelle righe del giovane poeta, a “una definitiva rinuncia alla felicità”. Allora, “può la poesia – conclude – contare su reami di parole per uscire dal labirinto convulso di quel che chiamiamo realtà? E non è forse quel che da millenni si pone come dono e fatica la poesia?”.

Un progetto di resistenza come vocazione e volontà: la poesia è, in tal senso, una forma di salvezza. Per questo la morte prematura di un poeta a vent’anni, la sua voce zittita, il suo passo svanito, hanno un sapore tragico eccedente, che spezza ogni fede, ogni speranza ideale. Ma è nella cura dell’altro, dei luoghi, delle cose appartenute e disperse, di ciò che era ed è nostro oppure no, che la salvezza ritorna, compiendosi proprio nel solco della poesia, là dove l’essere è plurale, ancor prima che infinito. “Il rovescio di ogni attesa è nella cura”, scriveva Lorenzo, sigillando così una poesia abitata da tenerezza e devozione per la natura: “La tua mano sfalda il muschio dalla quercia / e col gesto che contiene ogni stagione / ripara le ferite delle ghiande”. E questa cura, però, impone una presa di coscienza. Mai dimenticarsi della delicatezza, della complessità, del rischio e della meraviglia:

Capire che l’Altro è una fiamma:
se la tocchi col dito
o la spegni o ti bruci.

Ancora tra prossimità e distanze, tra la vita dei morti e le ombre dei vivi, tra desiderio e paura, la parola non smette di ardere. Essa stessa è fiamma da tenere viva, inventandosi un modo per farne approdo e riparo. La lingua dei poeti, in fondo e ovunque, continua a parlare e ad essere parlata: la luce che ne viene, e che disegna contrasti necessari, è lascito cospicuo; un dono che dinanzi all’avvento della morte non conforta, ma che conforterà nei giorni futuri, nelle vite degli altri e nelle eredità ulteriori, nel tempo lungo di chi saprà farne lettura, ispirazione e nuova cura.

Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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