Uomini e topi. Trump e l’America primordiale alla prova del fuoco
Il sogno americano rischia in tal senso di assomigliare sempre di più ad un incubo. Un incubo generativo senz’altro, un traumatico terremoto delle certezze. I corrispettivi nell’arte, nella letteratura e nel cinema
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La serie American Primeval, creata da Mark L. Smith e diretta da Peter Berg, in programmazione su Netflix, affonda gli artigli in un capitolo poco noto della storia americana, rivelando quanto sia stato effettivamente e tragicamente wild il selvaggio west, spesso edulcorato e/o mitizzato in romanzi, pellicole e serie che hanno cercato di trovare un carattere a volte eccentrico e altre patinato ad un tornante buio e opaco della storia americana. Basti pensare agli spaghetti western, alla serie Westworld, a 1883, a Deadwood, o Godless, giusto per intenderci. Nel caso di American Primeval si tratta del sanguinoso massacro di Mountain Meadows, verificatosi il venerdì 11 settembre del 1857. Nei pressi dell’area nota come Mountain Meadows, situata nello Utah, un manipolo di mormoni travestiti da nativi indiani, con la complicità di alcuni componenti della tribù dei Paiute, assalirono una carovana di pionieri, massacrandone 120, comprese donne e bambini.
La serie tv American Primeval
American Primeval, però, non indugia sul drammatico avvenimento, anche se rimane il centro nevralgico della trama, ma sprofonda lo spettatore in un territorio liminale e impreciso, anche se geograficamente delimitato dai riferimenti storiografici, intriso di sangue e violenza. Si tratta di un territorio opaco e vendicativo in cui i personaggi sono costretti da implacabili energie primordiali a trovare vie di fuga dolorose e strategie angoscianti di sopravvivenza. Chi attraversa questa zona selvaggia è marchiato per l’eternità da una irredimibile maledizione, una sorta di rapace rivalsa che si abbatte su chi brama, su chi pretende, su chi cerca il “bene” al di là del confine. A trionfare nel delirio di onnipotenza e violenza distruttiva è l’essere umano prescelto dal Signore, colui che pone Dio come faro guida, come unico giudice imperante in terra, come ispiratore, come protettore, come arma definitiva.
Il selvaggio West e l’età dell’oro
Siamo prossimi alla fine e mentre il fortino va in fiamme (per suo volere), Brigham Young, il secondo presidente della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi giorni, il colonizzatore e costruttore di una grande nazione di Santi degli Ultimi Giorni nell’Ovest dell’America, devoto marito e padre, fedele discepolo e apostolo del Signore Gesù Cristo, così parla ai suoi devoti: “fratelli e sorelle abbiamo sopportato angosce e dolori per raggiungere Sion e non dobbiamo permettere agli uomini del diavolo di rubarcela poiché noi siamo invasi da forze nemiche che tornano ancora per saccheggiare e bruciare le nostre case. Distruggono i nostri campi, sperando di ottenere la nostra distruzione, ma se il nostro regno di Dio si mantiene forte, prospera, aumenta, si estende, cresce nel suo corso, purificherà tutto, eliminerà e purificherà il mondo dalla malvagità. Nessun uomo, nessun gruppo, nessun presidente, potrà controllare me davanti al mio Dio.”
Tutto brucia intorno, le strutture collassano tra le fiamme. Gli ultimi derelitti avvolti dall’incendio crescente continuano ad ubriacarsi all’interno del saloon sfigurato dalle lingue di fuoco. Un inferno di risate isteriche, filastrocche incomprensibili bofonchiate tra i crepitii. Tutto brucia in un paesaggio di cenere e dense nubi funeste. Jim Bridger, abbandona il fortino che aveva costruito, protetto, alimentato per anni, accettando la drammatica conclusione di un avamposto marcio che serrava all’esterno il selvaggio conflitto di pionieri senza scrupolo. La sua ultima frase, lapidaria: “come dicono…anche una scimmia può accendere un fuoco”.
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L’arte di Matthew Day Jackson e l’America di oggi
La discesa all’inferno è compiuta? Forse non ancora. O almeno ancora non del tutto. Le radici del male sono più profonde di quanto si possa immaginare e corrono buie nell’abisso di una storia ancora tutta da scrivere, quella dell’America, per l’appunto. Il fuoco purifica, parla crepitando una lingua antica. È salvifico perfino. Nell’opera Me, dead at 37, del 2011, l’artista americano Matthew Day Jackson, si ritrae avvolto dalle fiamme in una pira funebre. Dallo scaramantico scatto emerge una profonda volontà di superare la morte in quanto atto degradante della fisicità del corpo. Una volontà di potenza che certifica un rito di passaggio, ma allo stesso tempo una trasformazione inevitabile che spinge l’essere umano a riaffermare il potere su di sé, mostrandosi “immortale” perché già oltre la morte. L’artista come accadeva anticamente al re non muore, ma si trasforma nella sua essenza primordiale che coincide con il potere in quanto immagine, un corpo mistico perenne.
Il discorso di Donald Trump alla Casa Bianca
Il neopresidente Donald Trump, al suo secondo mandato, ha da sempre compreso perfettamente il potere manipolatorio dell’immagine e ha riportato in superficie la viscerale brutalità di un assolutismo mistico che non ascolta, che non ragiona, che non sente ragioni. L’immaginario patinato e severo, il modello totalitario ma piacione ricalca stereotipi da regnante capriccioso dei secoli bui. Ma al di là delle immagini, il linguaggio è di per sé la pietra angolare di politica autoritaria e teocratica. Alcune sue affermazioni durante la cerimonia d’insediamento alla Casa Bianca ricalcano la farneticante orazione, citata precedentemente, di Brigham Young: “L’età dell’oro dell’America inizia adesso. Fermeremo l’invasione dalla frontiera del sud. Questi invasori sono tutti assassini, stupratori e malati mentali che avvelenano il sangue della Nazione. Da questo giorno in poi, il nostro Paese prospererà e sarà di nuovo rispettato in tutto il mondo. Tutto questo cambierà a partire da oggi e cambierà molto rapidamente. Saremo l’invidia di ogni nazione. La mia vita è stata salvata da Dio per rendere l’America di nuovo grande. Perseguiremo il nostro destino manifesto verso le stelle”.
La religione nell’America di ieri ed oggi
Quale Dio invocano i due “presidenti”? Nel nome di Dio si sono compiuti i misfatti più scellerati della Storia. È il Dio dei potenti? Sembrerebbe proprio di sì. Non tanto, come affermava Sergio Quinzio, il Dio che ci parla o a cui possiamo riferirci, ma piuttosto il Dio del potere senza limiti, della giustificazione del male come necessità. Un Dio implacabile. Il Dio de I Demoni dostoevskiani. “Se Dio c’è, io sono Dio… Se Dio c’è, tutta la volontà è sua e io non posso sottrarmi alla sua volontà. Se Dio non c’è, tutta la volontà è mia e sono costretto ad affermare il mio libero arbitrio… Sono obbligato a spararmi, perché l’espressione più piena del mio libero arbitrio è uccidere me stesso”. Uno dei timori più grandi che emana dalle parole farneticanti di alcuni leader mondiali è quello della scomparsa dell’alterità come valore, della coesistenza, del dialogo e di conseguenza della vera esperienza dell’essere umano, ossia di condivisione e di estensione comunitaria dell’esperienza della vita, nel rispetto di tutto ciò che essa in effetti rappresenta ed incarna.
La letteratura di John Steinbeck: Uomini e topi
Il sogno americano rischia in tal senso di assomigliare sempre di più ad un incubo. Un incubo generativo senz’altro, un traumatico terremoto delle certezze (poche) che hanno sostenuto per anni traballanti equilibri in grado di perpetrare un benessere accettabile in una porzione di mondo. Da qualche giorno tutto è cambiato e le ripercussioni potrebbero essere drammatiche. Probabilmente proprio per quella parte di pianeta che ha beneficiato per così dire di un “Dio lontano ma presente e vendicativo”. Nella dinamica della sopravvivenza in un sempre più spietato consorzio umano se ci trovassimo all’interno del capolavoro di John Steinbeck Uomini e topi, sempre per rimanere tra “le stelle e le strisce”, dovremmo preparare strategie alternative per non fare la fine dei topolini nelle mani del corpulento e mentalmente instabile Lennie
Fabrizio Ajello
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