Conversazioni di architettura. Funzione e finzione nell’evoluzione del progetto del XX Secolo
Nella seconda lezione del ciclo di conversazione sull’architettura, Luigi Prestinenza Puglisi si concentra sulla funzione e sui processi e percorsi che da essa traggono origine. In un’analisi che da Le Corbusier approda a Patrik Schumacher
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Oggi parleremo della parola funzione, un termine che molti architetti utilizzano con leggerezza, dandone il significato per scontato. Mentre, invece, la parola funzione, e i suoi derivati funzionale e funzionalismo, possono significare molte cose diverse tra loro.
La forma segue la funzione?
Nell’accezione più semplice diciamo che l’edificio è funzionale allo scopo quando ospita dignitosamente le attività che vi si svolgono e questo indipendentemente dal suo aspetto. Dentro una chiesa gotica posso, per esempio, fare una sfilata di moda. La navata stretta e lunga me lo permette senza troppi problemi.
In un’accezione più stringente, implica, invece, che la forma rappresenti, racconti e esalti il modo in cui l’edificio funziona. Diceva Sullivan: form follows function. Frase che ripetiamo spesso e con un rigorismo a volte eccessivo, come se prima ci fosse una funzione e poi una sola forma adatta a rappresentarla, andando oltre quello che Sullivan voleva intendere. Ci sono, infatti, funzionalisti di stretta osservanza che non ammetteranno mai che si possa disegnare una scuola moderna con materiali non moderni. E immaginano che già dall’esterno di un edificio funzionale si capiscano destinazioni e uso degli ambienti interni. Come la sede della Bauhaus, a Dessau, che aveva prospetti diversi a seconda che il corpo di fabbrica ospitasse al suo interno le aule, gli uffici o gli alloggi degli studenti.
Da qui un approccio che, per una sorta di paradosso, proprio funzionale non è, perché la realizzazione di un edificio che sembra funzionale comporta una serie di scelte più formali che pratiche la cui realizzazione è, a volte, difficile e onerosa. Infatti, per suggerire un efficiente funzionamento dell’edificio si richiedono ridotti spessori, ampie vetrate, volumi quasi immateriali, dettagli costruttivi ossessivamente curati.
L’ascesa del Movimento Moderno e l’evoluzione del funzionalismo
Marcello Piacentini, non senza ragioni, criticò questa ideologia progettuale mostrando che scelte più tradizionali erano certamente più ragionevoli di quelle auspicate da chi dell’aderenza alla funzione faceva una bandiera. Scrive nel saggio Architettura d’oggi (1930): “Quest’uomo dell’avvenire, che dovrà abitare in queste case di cemento, acciaio e vetro, non è poi una creazione arbitraria di cervelli troppo avidi di sognare a tutti i costi una fittizia società meccanizzata?”.
L’osservazione è non priva di fondamento: se l’architettura è sempre stata attenta alla funzione, genericamente intesa come buon funzionamento (si pensi per esempio alla triade vitruviana di solidità, bellezza e utilità), il funzionalismo in senso stretto, inteso come poetica, e quindi ossessione estetica, è un’invenzione del macchinismo dei primi del Novecento. Nasce con il Movimento Moderno, anzi, direi, con una certa componente, la più radicale, del Movimento Moderno, la quale intuisce che l’architettura delle sempre più dinamiche metropoli industriali deve essere fondata su criteri certi e verificabili: razionalità dei percorsi, corretta illuminazione naturale, buon orientamento climatico, ambienti calibrati sulle misure degli abitanti. E che al di fuori di questo approccio non si dà poesia della modernità.
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Il funzionalismo da Le Corbusier a Mies van der Rohe
Da un lato è l’architettura dell’existenz minimum, cioè della ricerca del minimo spazio abitabile per comprimere al massimo i costi, dall’altro del taylorismo, cioè della razionalità della catena di montaggio, eliminando tutto ciò che per l’ergonomia è scorretto o inutile. Un edificio non è diverso da una automobile e, se deve costare poco, sarà disegnato con lo stesso rigore. Avendo bene in mente che l’unico pezzo che non si rompe mai è, come diceva Henry Ford, quello che non esiste. La bellezza sarà da cercare nella razionalità del processo e in un certo minimalismo (appunto: meno c’è, meno si rompe). Se funziona e, soprattutto, se lo mostra onestamente, un edificio è bello, se no è uno spreco di tempo e denaro, e lo spreco non può mai essere bello.
Il funzionalismo nella sua banalità è facile da capire e molto efficace per i benefici effetti della razionalizzazione che riesce a generare. Ed è anche facile da giudicare. Basta, infatti, valutare analiticamente tutte le funzioni richieste, verificare se sono correttamente espresse nel linguaggio architettonico, sommarle e, alla fine, stilare un giudizio. Per i non addetti ai lavori diventa una regola facile da memorizzare: un buon edificio funziona bene, un cattivo edificio funziona male. E se è brutto? Se funziona è sempre bello e, comunque, il gusto è soggettivo e, quindi, non oggettivamente valutabile, gli verrà risposto.
Che il funzionalismo presenti problemi logici e metodologici se ne accorgono tutti, ma quasi nessun architetto di quegli anni esce dall’assunto funzionalista. Le Corbusier, per esempio, non è affatto convinto che l’efficienza, da sola, possa bastare. Per lui occorre che sia nobilitata dalla geometria. Ma, alla fine, ricorre a una metafora funzionalista: la macchina per abitare. Mies van der Rohe, che crede poco alla monofunzionalità degli edifici, ragiona in termini di esattezza ed efficienza della forma.
Il secondo dopoguerra e la ricerca dell’inutile
Nei Congressi Internazionali di Architettura Moderna (CIAM) si registrano interminabili discussioni in proposito. Al di fuori dei CIAM ci sono personaggi come Frank Lloyd Wright che si fanno beffe di tanto integralismo. Ma, alla fine, tutti, compresi i più critici, si muovono verso architetture in cui lo spazio è plasmato in relazione al suo uso e che racconta con onestà il proprio funzionamento. Per avere un cambiamento radicale di prospettiva, occorrerà aspettare la fine della seconda guerra mondiale. Gli orrori del conflitto fanno capire che il funzionalismo, sia pure inteso in senso ampio, è una tragica banalizzazione e semplificazione. Il mondo non può essere progettato sul principio della rispondenza a standard funzionali uguali per tutti. L’umanità non deve marciare allo stesso passo in direzione dell’utile, ma cominciare a muoversi con maggiore libertà in direzione della felicità. Noi non ci trasciniamo come automi (si pensi alla magistrale interpretazione di Charlie Chaplin in Tempi Moderni) in una catena di montaggio e, quando siamo felici, danziamo e, cioè, facciamo movimenti inutili che ci gratificano. Il perseguimento dell’utile è certamente ragionevole, ma è molto più interessante la ricerca dell’inutile: tra due punti, la linea più breve è una retta, ma ci sono un’infinità di altre linee più avvincenti e sensuali.
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La stagione del libero sfogo dell’immaginazione
Gli stessi Maestri, come Le Corbusier, si muovono secondo direzioni che contraddicono gli assunti funzionalisti con edifici, come la chiesa di Ronchamp (1950-1955), che sembrano arbitrari. Si cominciano a progettare oggetti, sia architettonici che di design, a forte impatto emotivo e funzionalmente poco utili, se non inutili. Arbitrariamente colorati, scultorei, a volte informi. Si sperimentano le geometrie non euclidee, si scomodano i filosofi. Si pensi, per esempio, al ruolo che giocano in Italia prima Superstudio e Archizoom e, poi, Ettore Sottsass e Alessandro Mendini, accumunati nell’obiettivo di dare libero sfogo all’immaginazione. È la fantasia che deve salvare il mondo. Da qui l’uso di forme inconsuete. Il risultato è che gli edifici sembrano sempre meno edifici, i mobili sempre meno mobili. In un crescendo che porterà il design e l’architettura a ridefinirsi. Non è difficile, a questo punto, vedere una sostanziale continuità tra gli esperimenti degli Anni Cinquanta e Sessanta e gli edifici scultura di oggi: siano le composizioni barocche di Frank O. Gehry o quelle concettuali di Diller Scofidio + Renfro. Opere per la comprensione delle quali il parametro funzionalista è visibilmente inadeguato. Fine quindi del funzionalismo? Oggi la funzione non può essere più considerata il criterio predominante di valutazione, il fattore che determina la forma, ma un semplice prerequisito. Un edificio, qualsiasi sia, deve garantire standard di funzionamento (per esempio la sicurezza in caso di incendio) e di consumi energetici (per esempio essere autosufficiente). Il resto, ciò che importa, travalica l’aspetto funzionale. A questo punto avremmo terminato di parlare di funzionalismo se non fosse che occorre un’ulteriore precisazione.
Dal funzionalismo al minimalismo
Possiamo considerare il funzionalismo come uno stile che si caratterizza per il rigore geometrico, per l’uso di colori puri, per una forte componente astratta. A costo di ripeterci: lo ritroviamo nelle abitazioni dell’existenz minimum, nella cucina di Francoforte, nei progetti del Bauhaus soprattutto sotto la direzione di Hannes Meyer, nei progetti presentati ai CIAM, nella macchina per abitare, nei nuovi quartieri costruiti in Germania e in Olanda. E in tutti quei progetti che si rifanno al cosiddetto International Style che nel 1932 Philip Johnson lancia negli Stati Uniti con la celebre mostra al MoMA. Ma, possiamo pensarlo anche come un atteggiamento mentale che ha contribuito a produrre almeno tre altri stili che, in un qualche modo, sono funzionalisti: il minimalismo, l’Hi-Tech e l’architettura parametrica.
Cosa sia esattamente il minimalismo lo sa solo Dio. Con questo termine si promuovono, infatti, le cose più disparate: sono minimalisti il rigoroso Mies van per Rohe, l’anoressica Kazuyo Sejima, il raffinato Antonio Citterio, l’autoritario Tadao Ando. E c’è chi pensa di considerare minimalisti anche personaggi massimalisti in base alla considerazione che ogni poetica, anche la più bulimica, per entrare a far parte del mondo dell’arte, debba evitare quanto non è necessario, con un atteggiamento severo e, appunto, minimalista. Motivo per il quale anche un architetto barocco potrebbe rientrare. Lasciando perdere per ora queste considerazioni, resta il fatto che il minimalismo implica un attento lavoro sul funzionamento dell’oggetto architettonico, finalizzato a eliminare il superfluo e l’inutile. In questo senso, potremmo definire il minimalismo come un funzionalismo in negativo. Nessuno potrebbe dubitare che, osservata sotto questa luce, Casa Farnsworth di Mies sia funzionalista, per la razionalità della sua organizzazione in pianta e per la chiarezza con la quale si mette in mostra. Anche se poi, proprio sulle funzioni, avvenne lo scontro tra Mies e la proprietaria della casa. La quale gli rimproverava di essersi dimenticato anche l’armadio (che, difatti, fu aggiunto, e dopo molte insistenze). La posizione di Mies, pur essendo per numerosi aspetti delirante, era molto limpida: un moderno funzionalismo punta all’essenzialità della vita e quindi a una radicale riduzione di tutto ciò che è inutile. Potremmo aggiungere: punta al funzionalismo platonico. E difatti a chi, come Hugo Häring, lo accusava di essere poco pratico, rispondeva che poco pratico era l’approccio organico che vincolava lo spazio ad un’unica funzione, mentre il suo spazio di usi ne ammetteva infiniti e diversificati.
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Hi-Tech e architettura
Il secondo stile che deriva dal funzionalismo, è l’HiTech. Si tratta di un approccio alla progettazione che persegue l’innovazione tecnologica ed è orgoglioso di mostrarla. Possono esserci numerosi edifici più efficienti del centro Pompidou a Parigi ma questo la tecnologia la esibisce, la esalta come fattore estetico. Il critico Reyner Banham in proposito parlava di bowellism (budellismo). Credo che ci siano poche parole più chiarificatrici ed espressive. Naturalmente non tutto l’Hi-Tech è bowellism, anzi forse dei budellisti l’unico che ha seguito fedelmente la strada degli impianti in facciata, e sino a un certo momento, perché poi anche lui ha optato per un atteggiamento più soft, è stato Richard Rogers. Fatta questa precisazione, dobbiamo ammettere che in tutte le opere Hi-Tech, da quelle anglosassoni di Norman Foster a quelle spagnoleggianti di Santiago Calatrava, la tecnologia è esibita, esattamente così come avviene per la funzione in un’opera funzionalista. E, come succede quando si privilegia l’apparenza, si registra spesso un’incongruenza tra un’immagine che promette molto e una sostanza che mantiene di meno.
Buckminster Fuller non perdeva occasione di ricordare che la tecnologia comporta una radicale semplificazione del processo produttivo, la prefabbricazione, l’eliminazione di ogni materia inutile, la effettiva leggerezza. Mentre, invece, spesso gli architetti che si professano moderni usano carrozzerie avveniristiche per nascondere organismi tradizionali.
Sarebbe sbagliato, però, assumere un atteggiamento moralista e liquidare il problema come un male da eliminare, mediante un’architettura più vera e più sincera. Se non altro per la ragione che molti edifici sono risultati, grazie a questi bluff, molto influenti nella storia dell’architettura. Si pensi a cosa succederebbe se, per pura ipotesi, si scoprisse che il Beaubourg non è quella macchina super efficiente che tanta architettura tecnologica ha anticipato. Insomma, dobbiamo ammettere che una funzionalità virtuale può essere funzionale alla fortuna storica di un edificio e alle buone idee che veicola.
Funzionalità reale VS funzionalità percepita
Possiamo quindi metterci l’anima in pace e accettare che esistano due funzionalità: quella effettiva dell’edificio e quella che il mondo crede che abbia. Sapendo che l’impatto comunicativo, cioè quello che storicamente conta, è sempre giocato più sul piano dell’apparenza che della sostanza. Vi è infine un terzo approccio che, ispirandosi alla capacità morfogenetica della Natura, punta sulla forma intendendola come prodotto di una strategia spaziale che la Natura stessa mette in atto per risolvere i problemi. Prendiamo per esempio la ragnatela. È proprio la sua organizzazione spaziale che permette di risolvere un problema di collegamento di punti tanto lontani con così poco impiego di materiali. Secondo Sergio Musmeci, uno degli strutturisti più geniali che hanno lavorato nel dopoguerra, ispirandoci a queste forme geometricamente complesse capiamo come ottenere strutture funzionali, eleganti ed economiche. Il progettista può farlo invertendo il processo logico al quale è abituato, partendo dalle tensioni e assumendo la forma come dato da ricavare. Esattamente come farebbe la Natura nel suo tendere al minimo strutturale e cioè alla efficienza. Il minimo di materia, quindi, non è un esercizio di pura eleganza, ma è assumersi la responsabilità di perseguire il disegno del cosmo. Un imperativo soprattutto etico. Se così è, le forme organiche – quelle realmente organiche e non che appaiono tali – esprimono chiaramente la funzione che sono destinate ad assolvere e insieme risolvono il problema, in questo caso strutturale.
Luigi Moretti e l’introduzione dell’architettura parametrica
Gli anni che vanno dal Cinquanta al Settanta hanno visto un fiorire di sperimentazioni che si sono orientate in tale direzione. Basti ricordare, solo per restare in Italia, i lavori di Luigi Pellegrin, di Maurizio Sacripanti e di Vittorio Giorgini. Possiamo inoltre attribuire a Luigi Moretti l’introduzione dell’architettura parametrica: gestita da parametri che ottimizzano la forma stessa in relazione ad alcuni scopi. Per esempio la curva di visibilità degli spalti dello stadio in relazione al numero degli spettatori. Oppure la conformazione e disposizione degli edifici in relazione al movimento del sole e, attraverso queste, l’ottimizzazione della luce e del calore. Il parametricismo è stato in tempi recenti teorizzato in termini estetici e utilizzato da Patrick Schumacher (per chi ha molta sopportazione alla noia consiglio di leggere i suoi scritti). Dobbiamo dire, con esiti formali a volte interessanti, a volte spiazzanti, a volte eccessivi. E problematici dal punto di vista dei costi e del funzionamento: penso per esempio alle case costruite a City Life a Milano, in cui i contenuti abitativi non mi sembrano all’altezza della forma futurista degli esterni.
Segno che anche questo strano tipo di funzionalismo, che appunto è il parametricismo, mescola sostanza e apparenza. Vedremo nelle prossime conversazioni se da questa impasse ci sia modo di uscirne.
Luigi Prestinenza Puglisi
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