La comunicazione nell’arte non può fermarsi all’arida logica usa-e-getta

Proseguendo il dibattito sulla comunicazione nell’arte, Francesco Monico ripercorre l’evoluzione dello storytelling, che risale fino alla Preistoria, quando gli uomini si raccontavano storie attorno al fuoco e dipingevano le caverne, mentre oggi rischia di perdersi

Nel 1927, nella conferenza The Story a Cambridge, E.M. Forster descrive gli uomini preistorici attorno al fuoco, intenti a raccontare storie e forse a dipingere sulle pareti delle caverne. Sostiene che la narrazione è sempre stata parte dell’essere umano, tanto quanto la rappresentazione visiva. La scena è primordiale: un gruppo attorno al fuoco racconta storie e, forse, dipinge. Le loro mani lasciano impronte sulle pareti di Lascaux, Cosquer, Altamira. In quell’atto duplice si manifesta qualcosa di potente: narrazione e immagine nascono insieme, intrecciandosi per creare immaginari collettivi. Oggi, in un’epoca satura di immagini, rischiamo di perdere quel legame originario.

Lo storytelling artistico: dal mistero alla pittura

Pablo Picasso, visitando Lascaux, avrebbe detto: “Non abbiamo imparato nulla in dodicimila anni”. Una frase che racchiude una verità: tutta l’arte contemporanea, con la sua spinta sperimentale e la sua ricerca formale, ripercorre quel sentiero. Quelle immagini rupestri non sono semplici decorazioni rituali, ma mondi, spazi di evocazione in cui gli umani del Paleolitico proiettavano la loro visione del reale e dell’invisibile.
Werner Herzog, nel documentario Cave of Forgotten Dreams (2010), ci guida attraverso la grotta di Chauvet, un luogo intatto da millenni, dove le pitture vibrano. Il suo sguardo non si limita a documentare, ma ci immerge in un tempo sospeso, un mistero insondabile. Alla fine, Herzog ci lascia con una visione: una centrale nucleare vicina ha creato un microclima artificiale in cui vivono coccodrilli albini. Nuotano in acque riscaldate dalla radiazione, ciechi alla luce del sole, immersi in un mondo sconosciuto. Eppure sognano. Ma cosa sognano questi esseri deformati dall’ambiente, alienati dal loro ecosistema originario? Sognano ciò che non hanno mai visto? E non è questa la domanda che ci poniamo davanti all’arte? Possiamo ancora sognare gli immaginari di un mondo che ci sorprende? Tutta la storia dell’arte è un immenso immaginario misterioso che sfugge alla nostra comprensione diretta. Le ombre che emergono dalla roccia, le figure di animali in movimento, le geometrie astratte che anticipano le avanguardie del Novecento: tutto è parte di un racconto che possiamo solo intuire. 

L’immaginazione nello storytelling artistico

Qui entra in gioco l’immaginazione. Basti pensare ad Aby Warburg e al suo Bilderatlas Mnemosyne, una cartografia di immagini che attraversano la storia, tracciando costellazioni di senso invisibili. L’arte non è mai statica, ma un’energia in movimento, un flusso di rimandi e tensioni stratificate nel tempo.
Viviamo in un’epoca in cui tutto è racconto, e proprio per questo nulla lo è davvero. Nella sua riflessione sullo storytelling e il patrimonio artistico, Antonio Spadaro ha sollevato su Artribune una questione cruciale: come possiamo “far parlare” le opere d’arte nel contesto contemporaneo? La comunicazione dell’arte rischia di essere fagocitata dalla logica usa-e-gettadove l’estetica del post sostituisce la profondità dell’esperienza. Cosa resta dell’operazione di Chiara Ferragni agli Uffizi? Quale immaginario ha prodotto l’incontro tra la popolarità di un’influencer e la grande arte? È stata una strategia di comunicazione, certo, ma quanto ha inciso sulla percezione della bellezza e del patrimonio artistico? L’arte non può ridursi a un evento social, destinato a svanire nello scorrere infinito della rete. Dobbiamo scegliere: una cultura che intrattiene o immaginari capaci di durare? 

La comunicazione nell’arte ha bisogno di una narrazione autentica

Serve un’alleanza tra narratori, filosofi, teologi e artisti, per uscire dall’effimero e costruire narrazioni; oggi ci dobbiamo interrogare sulla necessità di far entrare l’opera o una mostra all’interno di una narrazione che sprigioni un racconto autentico.
Jonathan Gottschall, nell’ambito del Darwinismo letterario, descrive l’umano come un animale che inventa storie e ci crede (2012). Raccontiamo per dare senso al mondo, condividere, dare coerenza all’esperienza. Se siamo esseri narrativi, l’arte è una narrazione radicale, non un semplice oggetto di contemplazione. Dobbiamo superare la concezione museale degli Anni ’90: servono nuove visioni, immaginari inesplorati, scenari che solo l’arte può generare.

Damien Hirst. Photo Calvin Courjon, 2021
Damien Hirst. Photo Calvin Courjon, 2021

Un esempio di storytelling da cui imparare: Damien Hirst

Un esempio potente è la mostra di Damien Hirst, Treasures from the Wreck of the Unbelievable, allestita nel 2017 a Venezia. Hirst costruisce un’epopea visiva basata su una storia fittizia: un antico relitto carico di tesori scoperto in mare. I reperti – sculture colossali, frammenti erosi, manufatti incrostati di coralli – sono presentati con la serietà di una scoperta archeologica. Ma tutto è una messinscena curata nei dettagli, con un documentario fittizio che simula il ritrovamento e il restauro di opere collezionate da un ex schiavo arricchito. L’operazione di Hirst è un atto di creazione mitologico-artistica: non si limita a esporre, ma costruisce un’epica immersiva che costringe lo spettatore a interrogarsi sulla realtà, sulla verità storica e sulla potenza dell’immaginazione.

Un esempio di storytelling da cui imparare: Michelangelo Pistoletto

Un ulteriore esempio è L’uomo nero, il progetto di Michelangelo Pistoletto, che si sviluppa sia come libro che come film (2010). L’opera esplora la dimensione dell’essere solo, dell’unicità nel grande gioco del doppio, e del vuoto inteso come contenitore. Pistoletto utilizza la narrazione visiva e testuale per creare un’opera che è una riflessione sulla percezione della realtà e sull’influenza della cultura visiva nella costruzione della nostra identità.

Recuperare una narrazione simbolica e potente

Giambattista Vico parlava dei Bestioni, quegli uomini che, incapaci di comprendere razionalmente la realtà, la popolavano di miti e di giganti. La loro esperienza del mondo era simbolica, evocativa, fatta di immagini potenti e di storie ancestrali. Non è forse lo stesso che accade con l’arte? Non è forse la pittura, la scultura, la poesia un modo per dare forma all’invisibile, per evocare ciò che la razionalità non può esprimere? Oggi, in un’epoca di crisi degli immaginari, di narrazioni frammentarie e di estetiche usa-e-getta, dobbiamo tornare a questa intuizione: l’arte è creazione di mondi. Non basta documentare, archiviare, preservare. Dobbiamo riattivare la nostra capacità di immergerci negli spazi simbolici, di sentire la vibrazione che attraversa i millenni e che ci lega agli uomini delle caverne. Forse il nostro compito oggi non è solo quello di esporre l’arte, ma di lasciarci raccontare da essa, dopo l’ubriacatura iper-razionale della modernita di aprirci all’ipermoderno, e imparare di nuovo a sognare i Bestioni.

Francesco Monico

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