Il teatro come espressione sincretica. Intervista all’ensemble più sperimentale d’Italia
Psicoanalisi, filosofia, scienza. Non c’è alcun giudizio ma solo Interesse, affetto e curiosità nella ricerca che LACASADARGILLA conduce da oltre quindici anni per indagare, attraverso il teatro d’avanguardia, l’essere umano e le sue più profonde dinamiche di rapporto

Si definiscono ensemble, e non collettivo o gruppo, Alessandro Ferroni, Lisa Ferlazzo Natoli, Alice Palazzi e Maddalena Parise i quattro fondatori di lacasadargilla; realtà nata quindici anni fa attorno a cui gravitano, a maglie più o meno allargate, molte altre persone.
Attraverso una drammaturgia d’avanguardia, un serio lavoro interpretativo e un efficace apparato para-teatrale, lacasadargilla porta in scena una ricerca profondissima sull’essere umano e le dinamiche relazionali. Indagine dai molteplici risvolti psicologici che emerge anche in Il Ministero della solitudine, recentemente in scena al Teatro Vascello di Roma. Spettacolo interpretato da Caterina Carpio, Tania Garriba, Emiliano Masala, Francesco Villano; attori che, fatta eccezione per la new entry Giulia Mazzarino, fanno parte da sempre del noto ensemble. Abbiamo approfondito ricerca e modus operandi di lacasadargilla parlandone direttamente con i quattro fondatori.
Intervista a lacasadargilla
Partiamo dallo spettacolo in scena: “Il Ministero della solitudine”, opera di tre anni fa ma sempre attuale…
Trattandosi di uno spettacolo sulla solitudine, nel tempo si è radicato, diventando ancora più duro. È un’opera nata dall’incontro creativo tra Fabrizio Sinisi e Marta Ciappina che, curando rispettivamente drammaturgia di testo e movimenti, hanno sviluppato un metodo di scrittura davvero dirompente, dando corpo a un sentimento vivo più che mai. Nel gennaio 2018, la Gran Bretagna ha nominato ufficialmente un ministro della Solitudine, il primo al mondo, per far fronte ai disagi che questa può̀ provocare a livello emotivo, fisico e sociale. L’anno successivo è stato inaugurato il relativo Ministero, “istituzione dalla natura politicamente ambigua e dalle finalità̀ incerte”.
In effetti la sceneggiatura riesce a comunicare pur negando la comunicazione. I testi sono criptici e per la maggior parte sono monologhi più che dialoghi…
Esatto, una scelta che deriva proprio dal voler mettere in primo piano la solitudine che, attraverso la mancanza di dialoghi, viene concretamente agita. Sentimento ancora oggi vivo ma percepito in maniera plateale e condivisa per la prima volta durante la pandemia, periodo in cui lo spettacolo è, per così dire, “fiorito”. Un momento storico che ha messo in crisi non solo le comunicazioni tra individui (o evidenziato le difficoltà esistenti) ma l’incapacità di essere, o meglio di esserci per l’altro nei rapporti.
Qual è il messaggio principale dello spettacolo?
Una domanda complessa. La verità è che più che “dare messaggi” vogliamo “raccontare”; mettere il pubblico “alla finestra”; nella posizione di osservatore privilegiato che può giungere alle sue conclusioni osservando questi frammenti di vite, in cui ciascuno affronta il dramma della solitudine in modo personale; con strategie, reazioni e risposte diverse, imprevedibili, individuali.
Per quanto, il solo invito a soffermarsi e riflettere, nella società del “like e fuggi”, sia di per sé un messaggio forte.
Un invito a guardare e a sviluppare un senso critico che tocca tutta la vostra produzione, giusto?
Sì. Tanto negli spettacoli corali, quanto in quelli con meno interpreti in scena, c’è sempre una presa di posizione, la ricerca di una consapevolezza.
Che rapporto si instaura tra voi che fate un lavoro di regia, drammaturgia, background e i vostri interpreti?
C’è un continuo scambio, un’attività creativa. Per cui, noi definiamo alcune linee, ma poi loro, specialmente quando ci seguono da tanto tempo, fanno un autentico lavoro di interpretazione e costruzione del personaggio. Perciò ciascuno è libero di arricchirlo e connotarlo come ritiene opportuno. Noi mettiamo sempre in primo piano i rapporti, ogni spettacolo vive grazie alle dinamiche relazionali che si instaurano.
In effetti questo emerge molto bene anche nel “Ministero della Solitudine” dove, paradossalmente, le relazioni mancano…
È vero, gli unici personaggi che riescono a entrare in contatto, attraverso una triangolazione assurda, sono agli antipodi. Ognuna delle cinque solitudini in scena ha le proprie peculiarità, le proprie psicosi e tutte sono accomunate da un senso di mancanza, vuoto, che dà voce alle loro carenze interiori. Il punto centrale che cerchiamo di mettere in evidenza è che prima di nasconderle agli altri, i protagonisti nascondono le proprie mancanze a loro stessi e, negandole, le trasformano in realtà radicate, ineluttabili; ovvero: impossibili da risolvere.

Io vi ho conosciuto con il melologo su Uccelli, ma anche in questo caso e negli altri spettacoli ho colto dei riferimenti a Hitchcock, possibile?
Ah, che bella domanda! Allora speriamo che ci sia tanto Hitchcock nei nostri lavori e la ragione è duplice. Da una parte, per la sua natura di acuto osservatore, in grado di cogliere e restituire le dinamiche psicologichepiù sottili e latenti; poi, perché tutti quanti, benché provenienti da background diversi, condividiamo un’inclinazione per il genere del thriller, del romanzo giallo. Inteso nell’accezione di Borges, come genere che più di ogni altro consente di analizzare le comunità umane, piccole e grandi.
Inoltre, a livello scenico, i nostri lavori procedono attraverso un principio d’indagine per cui lo spettatore (che avevamo messo alla finestra come osservatore) sceglie su cosa soffermarsi, perché ogni personaggio apre a un mondo diverso. Quindi la visione dei nostri spettacoli non è mai passiva, perché implica una scelta da parte degli spettatori.
Molto interessante. Le carenze dialogiche nella drammaturgia fanno inevitabilmente emergere un altro aspetto essenziale della vostra ricerca, quello delle immagini, dell’apparato para-teatrale, potete dirmi di più?
Paradossalmente nei nostri spettacoli l’apparato para-teatrale forse ha una funzione più esplicativa della sceneggiatura che, a tratti è – volutamente – criptica e incomprensibile. Come se l’elemento visuale, inteso nell’accezione più ampia di: scene, costumi, sound design, luci e movimenti scenici, assolvesse a quello che anticamente era il ruolo del coro, ovvero fare da tramite tra attori e spettatori. Si tratta di elementi che devono dialogare con la scena e gli attori senza sopraffarli, ovvero senza mai catalizzare le attenzioni del pubblico.
In Uccellini, addirittura, siamo andati oltre e abbiamo introdotto le proiezioni, rendendo il lavoro molto cinematografico ma sempre mantenendo la scena preponderante.
Nello stesso tempo anche musiche e sound design hanno un ruolo portante?
Esattamente, possiamo dire che, specialmente negli spettacoli in cui l’azione scenica viene azzerata, la struttura musicale costruisce la visione. Anche perché, per citare Lacan, noi guardiamo con le orecchie e ascoltiamo con gli occhi. Del resto, il teatro è una forma sincretica di espressione, in cui si fanno convergere tutte le linee della percezione. Per un trionfo sinestetico dei sensi.
Quant’è importante l’introspezione psicologica nella vostra ricerca?
Indubbiamente è protagonista, nella misura in cui occupandoci di esseri umani l’indagine psicologica è imprescindibile.
C’è speranza? Alla fine, com’è la visione del mondo di lacasadargilla? Sottolinea le carenze perché crede in un miglioramento?
Sì, c’è speranza, noi andiamo in scena per salvarci insieme, per prenderci tutti insieme le nostre responsabilità e spronare il pubblico a fare altrettanto. Per questo nelle nostre opere il giudizio è rigorosamente sospeso in favore di una presa di coscienza collettiva
Una parola sui vostri prossimi progetti?
Stiamo lavorando su una drammaturgia originale in collaborazione con Andrew Bovell, il drammaturgo australiano autore di When the Rain Stops Falling, testo che abbiamo portato in scena nel 2019. Un progetto che vedrà la luce nel 2027 perché si tratta di un lavoro impegnativo e noi siamo lenti e operosi, non ci interessa correre. Invece, all’inizio del ’26, porteremo in scena Escaped Alone di Caryl Churchill, un capolavoro di scrittura per quattro donne.
Ludovica Palmieri
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