
Non solo un luogo dove si mangia ma un’esperienza immersiva che sfida le convenzioni della ristorazione tradizionale. A Copenaghen con Alchemist lo chef danese Rasmus Munk, come un alchimista, è riuscito a creare una vera e propria avanguardia culinaria che fonde cibo, arte, scienza e spettacolo. Ogni portata oltre ad essere un piatto da gustare è un’opera d’arte da ammirare e capire. In altre parole, per raccontare l’Alchemist, ristorante pluristellato, non basta la guida Michelin, ma bisognerebbe inventare una guida su misura.
Atto I: il concept dietro Alchemist
L’esperienza pensata da Rasmus Munk, uno degli chef più acclamati del momento, è un viaggio multisensoriale che oltre il semplice assaggio. Qui, il diner non si limita alla degustazione delle 50 “impressioni” del menù, ma diventa parte integrante di un’opera teatrale, in cui la quarta parete è stata abbattuta trasformando il ristorante in palcoscenico dove si muovono i camerieri. All’Alchemist, l’ospite oltre ad essere uno spettatore, è l’attivatore stesso dell’opera, diventando protagonista grazie alla scenografia di cui fa parte anche la colonna sonora. Il ristorante, infatti, si situa all’interno dell’ex Teatro Reale Danese che, grazie all’aiuto di un generoso investitore, è stato trasformato in una struttura elegante e raffinata, grande abbastanza per accogliere al suo interno il mondo che lo Chef aveva immaginato.
All’Alchemist il percorso culinario è diviso in atti
Il percorso culinario dell’Alchemist è suddiviso in atti, come in un teatro. Il ristorante è diviso in sei sale e solo in tre di queste si mangia. Le altre servono per attivare il corpo e la mente, preparando l’ospite ad un’esperienza che non si ferma solo al cibo. Nelle ore di permanenza (che possono durare dalle 2 alle 6) nel locale, infatti si adoperano tutti i sensi, non solo il gusto e l’olfatto come si è soliti fare in un ristorante tradizionale. L’esperienza va oltre il mangiare per proporsi come un vero e proprio momento di riflessione su diverse tematiche; tra cui: il data mining, l’inquinamento degli oceani e la donazione degli organi. Il cibo diventa quindi uno strumento di comunicazione fra i tanti utilizzati (come: la musica, le videoproiezioni sul soffitto e le interessantissime spiegazioni dei camerieri).







Atto II: il viaggio all’interno di Alchemist
Per mangiare, gli ospiti si spostano in tre ambienti diversi, ciascuno progettato per amplificare il significato e l’impatto emotivo dei piatti serviti. Tra questi, una cupola planetario proietta immagini evocative sul soffitto, trasformando l’ambiente in una tela digitale su cui prendono vita scenari suggestivi. Questa gigantesca superficie di proiezione diventa un’estensione narrativa del percorso culinario, ponendo il visitatore in una dimensione quasi quadridimensionale, in bilico tra realtà e finzione, il cui il cibo dialoga con le immagini, i simboli e i concetti. Il suo impatto visivo richiama le pratiche dell’arte immersiva e dell’installazione ambientale, evocando esperienze che vanno dalla videoarte ai panorami digitali delle nuove tecnologie, come quello dell’intelligenza artificiale. Uno degli interventi più emblematici è la proiezione di un enorme occhio ispirato a 1984, il famoso romanzo orwelliano, che trasforma la cupola in un dispositivo di sorveglianza virtuale, ribaltando il ruolo dello spettatore e rendendolo, a sua volta, osservato. Questo scambio di sguardi viene amplificato dal piatto omonimo che riproduce l’occhio di Munk, che diventa simbolo stesso del Grande Fratello. Questo gioco percettivo non è fine a sé stesso, ma rientra in una riflessione più ampia sull’interconnessione tra individuo e sistema, su come la tecnologia e l’informazione plasmino la nostra percezione del mondo. In questa fusione tra arte, design e gastronomia, la cupola dell’Alchemist si configura come uno spazio liminale, capace di destabilizzare il visitatore e ridefinire i confini tra esperienza estetica e consumo.

Alchemist un ristorante performativo
Questa stanza è il luogo dove si trascorre la maggior parte del tempo e dove si gustano la maggior parte delle portate. Più che nelle altre, in questa sala si capisce l’aspetto performativo del ristorante. Oltre che per le proiezioni sulla cupola, è affascinante vedere i gesti coordinati dei camerieri, che si muovono quasi senza farsi vedere fra gli ambienti del ristorante, quasi fossero dei ballerini pronti a guidarti in questa danza unica.
Gli stessi piatti sono delle opere d’arte, non solo per la loro estetica meticolosa e il loro raffinato, ma per il significato che portano con sé. Uno degli esempi più iconici è “Tongue Kiss”, una scultura gastronomica che raffigura una lingua e invita alla riflessione sul gusto e sulla percezione sensoriale. Un altro piatto, “Plastic Fantastic”, è realizzato con materiali commestibili che imitano la plastica, sottolineando l’impatto dell’inquinamento ambiente sugli oceani.
La pratica artistico-culinaria di Rasmus Munk ridefinisce il concetto di ristorante, trasformandolo in una piattaforma di espressione creativa che stimola i sensi e la mente. Qui, la cucina non è solo nutrimento, ma un’esperienza totale, in cui l’arte diventa parte integrante di ogni portata. In un mondo in cui la gastronomia è sempre più intrecciata con altre forme creative, Alchemist si pone come avanguardia assoluta, dimostrando che il cibo, diventato in questo ristornate una forma d’arte, può essere uno dei linguaggi più potenti per raccontare il nostro tempo.
Felicienne Lauro
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