Il senso della comunità nella moda. Intervista all’attivista Orsola de Castro
Dalla docenza alla scrittura, passando per un movimento diventato internazionale e tra i più grandi del settore. Orsola de Castro si è confidata con Artribune in occasione del nuovo Focus Moda del magazine, parlando anche della necessità di un salario equo nel settore

Mentore, docente, direttrice creativa, autrice de I vestiti che ami durano a lungo. Orsola de Castro è una delle principali attiviste del settore moda. Ha aiutato a porre le basi della moda responsabile ed è oggi un riferimento per trovare ispirazione nella contemporaneità. Attraverso la moda, gli abiti e gli armadi tocca gli ambiti della politica, della società, della comunità, dell’economia sociale, del cambiamento. Le sue armi sono aghi, uncinetto e ferri, insieme a coraggio, intraprendenza e voce autorevole. Da prima è stata pioniera dell’upcycling, trasformando gli scarti in capi di lusso con il suo pluripremiato marchio From Somewhere (nato nel 1997) e sviluppando collezioni, riutilizzando l’invenduto per Topshop e Speedo, tra le altre. Successivamente, nel 2006, co-fonda Estethica, nata come iniziativa per dedicare spazio alla moda etica all’interno della London Fashion Week. Si afferma come collettivo di esperti che lavorano in tutti i settori dell’industria della moda, e si evolve presto in una agenzia creativa di consulenza, mentoring e soluzioni per i rifiuti pre e post consumo, di cui Orsola de Castro è direttrice creativa. La tragedia del crollo del Rana Plaza nel 2013 è stato il motivo che l’ha spinta ad avviare un movimento, evolutosi oggi in una comunità perché si condividono valori e pratiche. Una rivoluzione pacifica ma determinata ed assidua, quella di Fashion Revolution, che oggi conta 90 paesi. Uno spazio di attivismo comunitario che agisce nel micro, toccandoci tutte e tutti, fino ad arrivare ad essere una delle principali forze di advocacy a spingere la Commissione Europeaa considerare nuove normative in nome dei diritti dei lavoratori.

Intervista a Orsola de Castro
Non fai solo parte di una o più comunità, tu sei comunità. Cosa o chi pensi abbia ispirato nella tua vita il senso di comunità?
È interessante perché non sono tipicamente una persona da comunità. Le mie comunità non sono necessariamente prossime, ma sono spesso lontane, quindi sono comunità dove posso entrare ed uscire, dalle quali posso sia imparare che dare. Credo che il mio senso di comunità venga dal far famiglia e ho sempre avuto istintivamente un bisogno di comunicare. Chiaramente un comunicatore non comunica da solo, e quindi il mio istinto è quello di parlare e quindi imparare. Mentre lavoro all’uncinetto penso a tanti passaggi dell’umanità, della politica, della filosofia, della poesia, e questo mi porta a fare comunità. Perché mi porta a dover saperne di più e quando devi saperne di più ti devi espandere.
Attraverso il linguaggio tessile parli di coraggio e debolezza, di costruire e di distruggere per rinascere. Uno spazio poetico dove movimenti di uncinetto creano strade da percorrere e pensieri da approfondire. Che valore ha per te la community dei social? Sembra parte integrante del tuo essere.
In parte lo è, anche se è un’altra contraddizione. A me non piace mettermi in mostra, sicuramente non mi piaceva. Non ho idea di come sia diventata una public speaker. Se quando avevo 15 anni mi avessero detto che avrei parlato su un palco ad audience da 12 a migliaia di persone, avrei detto “impossibile”. Però nella vita si imparano cose inaspettate. A me non spaventa; al contrario mi calma. Guardo tutti, le loro espressioni e capisco se quello che sto dicendo è importante o no, capisco per chi è importante, vedo i sentimenti altrui. Alcune volte rispetto alle mie parole ma altre rispetto alla mia conoscenza. Lì io sono un veicolo per arrivare a queste persone.

E online?
Online è simile. Credo di aver capito di volermi dedicare in futuro alla scrittura, e per me i social sono anche legati a quello. Per anni ho scritto diari e il canale Instagram è un po’ un diario per me. Diverso, ovviamente. Viene letto da altri ma è una gran goduria mettere insieme le parole giuste e mi piace molto avere dei confini. Sai, io sono una upcyclist!
Ovvero?
Mi piace lavorare nei limiti. E questo limite è nel word count. È nel pensiero di non offendere, di non dire inaccuratezze, di trovare la parola giusta in grado di spiegare un particolare sentimento. Apprezzo tantissimo le persone che bussano alla mia porta e scambiano un pensiero. Non c’è niente in me che può essere restia a questo tipo di contatto e rapporto. Do e prendo, prendo e do. E lo apprezzo.
Orsola de Castro: artigianato e comunità nella moda
Hai detto che “Perdere un artigiano significa rischiare l’estinzione di una specie protetta”. Sei fiduciosa in un ritorno reale e stabile dell’artigianato?
Al 100% sì. Questo posso dirlo con la mano sul cuore. È il vero passo avanti che è stato fatto. La cosa più banale, la più piccola, la più stigmatizzata, eppure più istintiva, è l’atto del riparare. Nel minuto nel quale noi abbiamo fatto, abbiamo riparato. Nessuno dei giovani stilisti emergenti con i quali lavoro nel mondo, e lavoro con tanti, viene a dirmi “voglio diventare il nuovo Prada”. Al contrario è tutto legato alla visione artigiana, umana: un piccolo business, un piccolo studio, mini-collezioni, rielaborare i vestiti altrui, dare una seconda vita ai vestiti del proprio brand. C’è un sistema completamente diverso dietro quello che è il design. Poi chiaramente ci sono anche quelli che finiranno a fare questo gioco ridicolo che stanno facendo i grandi brand. L’industria mainstream della moda ha colonizzato, ha sfruttato, ha reso brutto il bello, banale l’originale, ce l’ha messa tutta per rovinarsi, quindi i creativi adesso hanno un parametro molto diverso perché l’altra cosa splendida della moda è che è ciclica. Quando visiti un’azienda a Prato, quello è artigianato industriale! L’artigianato nasce dal terreno, dalle persone e dal proposito. Stiamo perdendo dei craft in giro per tutto il mondo, sicuramente, ma mi interessa il fatto che c’è un ritorno e una voglia di inventare un artigianalità nuova.
Il concetto di cura è legato a quello di comunità?
Il concetto di cura è assolutamente legato al concetto di comunità. La scoperta sull’uomo di Neanderthal noto come l’uomo di La Chapelle-aux-Saints ne è un esempio. È il momento nel quale noi ci prendiamo cura di un altro che veramente abbiamo raggiunto il top della nostra civiltà. Non sono le costruzioni, non è l’agricoltura, è la cura. La cura è al principio di qualsiasi civiltà, nel momento nel quale ti riunisci, se non hai cura, non hai civiltà, non hai comunità, non hai relazioni.

Quali sono gli ingredienti migliori per fare comunità?
Ci sono delle regole importanti per fare comunità. Prendi me, ci sono delle cose che faccio molto bene, ma altre molto male. Senza gli altri io non esisto. Se penso a cosa ho veramente imparato con l’uncinetto da piccola, è stato fare errori. Ma soprattutto ho capito che avevo bisogno degli altri. Perché da sola non valgo niente. Come tutti. Ed è proprio questo il bello.
Quindi, qual è la formula?
Scegliere sempre qualcosa che per te non sia del tutto facile da fare, perché se scegli le cose dove eccelli, rischi che ti monti un po’ la testa. Non hai bisogno degli input degli altri. Se invece scegli una cosa che è un po’ difficile per te, inizia una traiettoria dove accadono cose inaspettate. Non sei la “star of the show”, la persona con tutte le risposte. Troverai persone che ti daranno le risposte che tu non hai. Che ti insegnano a usare l’ago in un modo che tu non sai fare. Che hanno un pensiero opposto, parallelo, diverso dal tuo. Trova qualcosa di difficile. Seguila. Sbaglia. Ricomincia. E fatti aiutare.
La moda di oggi secondo Orsola de Castro
Quali valori mancano all’interno dei brand contemporanei?
È semplice: un giusto salario. Si parla spesso dei direttori creativi, ma dove sono i programmatori delle macchine tessili? Dove sono i cartamodellisti? Dove sono i lavoratori della filiera? Sono spesso sfruttati e sottopagati. Se un’azienda è disposta a mettere i propri lavoratori a rischio con sostanze chimiche, sappiamo che ha sfruttato sia gli uni che gli altri. I multimiliardari in questo settore non hanno fatto i soldi da soli ma sotto pagando gli altri. Quindi la cosa che manca nell’industria moderna è il rispetto per il resto dell’umanità, manca una equa distribuzione dei ricavati delle aziende, prendendo in considerazione tutti quelli che li rendono possibili. Ci sono delle competenze che possono avere un valore marginalmente o non marginalmente più alto, ma non importa, tutte le persone di un’impresa devono potersi assicurare un salario equo e solidale. Questo è talmente lontano dalla nostra realtà dal sembrare un’utopia. Ma è talmente vicino alla logica del rispetto che ti domandi com’è possibile che siamo arrivati a farlo diventare un’utopia?

Invece, quali ostacoli impediscono alla moda di evolversi?
Ci hanno levato una passione e una competenza. Va reintrodotta la passione perché non ci si veste solo per vestirsi: bisogna acquistare cose che valgono, abiti giusti per la propria taglia fisica e per quella interiore, in grado di rispecchiare i propri principi e valori. Quando vedo questi ragazzi giovanissimi che comprano, comprano, comprano e poi rivendono su Vinted pensando sia un atto sostenibile, si sbagliano perché si chiama non amore che è l’opposto della sostenibilità.
Il denim strappato è un esempio di non amore?
Assolutamente sì, c’è un intero capitolo nel mio libro dedicato a questo. Innanzitutto non cresce un filo d’erba intorno a queste fabbriche, cioè i chimici che vengono usati per corrodere un materiale disegnato per essere indistruttibile come il denim sono potentissimi. Non è facile arrivare al risultato di un materiale rotto e sgretolato che ci propongono nei negozi! Se vai in fabbrica, vedi moltissimi lavoratori grattare senza sosta con pietre e chimici questi tessuti che sono stati prima creati e poi disintegrati.

Sogni e speranze di Orsola de Castro
Ci sono tuoi sogni, che ancora non conosciamo, riguardo al futuro della moda? e come vedi il futuro della moda in relazione alle comunità?
Il più volte mi viene detto di andare a sognare da un’altra, ma io rispondo che sono 25 anni che sogno e tante delle cose che sognavo 25 anni fa adesso sono successe o comunque ne stiamo parlando quindi ‘non sottovalutate i miei sogni!’. La visione che ho della moda è al 100% comunitaria. Immagino ad esempio una comunità legata ai suoi dintorni alle sue fabbriche, immagino tutti noi come barriere a questo spreco continuo, dire “basta abbiamo abbastanza”. Immagino un recupero a tutti i livelli della nostra filiera quindi inclusa la comunità. Io credo che una moda che non faccia comunità l’abbiamo vista, sfrutta e più abbiamo consapevolezza di questo sfruttamento e più le persone che hanno gusto si vestiranno diversamente e il messaggio avrà molti più ascoltatori.
Hai detto una frase interessante: Per me sarebbe da disinvestire nella crescita e da investire nella prosperità. Cos’è per te la prosperità?
La prosperità tocca tutti e quindi non può esserci prosperità per una persona se la persona lì accanto soffre, perché è proprio una questione di energia e di terreno. Non può esserci un terreno rigoglioso che non regala un po’ di acqua se il terreno accanto è desertico e allora ritorniamo alla cura.In questo momento non è mai stato così chiaro che cosa vuol dire investire nelle persone sbagliate, andare a pregare negli altari sbagliati. Quello che stiamo vedendo adesso è l’apoteosi dell’avere investito nella crescita e non in tutto il resto della prosperità.
Non ho potuto non pensare al tuo lavoro quando è uscita la notizia sulla causa lanciata e vinta, all’Alta Corte per la proprietà intellettuale di Seul, da Louis Vuitton contro uno stilista coreano di nome Lee Kyung-han per aver riutilizzato parti di borse griffate per creare nuove produzioni di upcycling.
C’è chi crea e chi ci fa tornare indietro. Per me tutto il concetto di brand protection, di appropriazione e inoltre di impedire agli altri di fare il proprio lavoro non è condivisibile. E’ fuori moda. Avevamo appena assistito, giusto pochi mesi prima, alla querela tra la ministra della cultura romena, Raluca Turcan, e Louis Vuitton che ha visto quest’ultimo costretto a ritirare dal mercato la blusa in commercio ispirata agli abiti tradizionali della Romania senza in nessun momento citarne l’origine. E solo pochi mesi dopo vediamo Louis Vuitton in Corea del Sud contro un piccolo designer che fa upcycling in tempi odierni?
Margherita Cuccia
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