Una nostra inchiesta sull’esaurimento mentale dei lavoratori dell’arte
I lavoratori del settore dell’arte sono esauriti: per 9 su 10 la precarietà economica influisce negativamente sulla propria salute mentale. È solo uno dei dati emersi dal nostro sondaggio, raccolti in queste pagine insieme alle parole di chi vi ha partecipato

L’arte fa bene alla salute, fisica e mentale. Numerosi studi italiani e internazionali lo hanno confermato. Il contatto con l’arte, infatti, riduce i livelli di stress, stimola i sensi e offre sollievo da stati d’ansia e di depressione. Tanto che negli ultimi anni si sono moltiplicate le iniziative di musei e istituti culturali che offrono esperienze per migliorare e favorire il benessere mentale delle persone. Emblematico il caso del programma Open Up With Vincent del Van Gogh Museum di Amsterdam. L’idea è quella di permettere alle persone di trarre beneficio dal potere curativo dell’arte, proprio come accadde per il pittore olandese, che per tutta la vita lottò con problemi e debolezze di natura psicologica. Il museo fiammingo prevede un ricco programma di attività, rivolto sia a persone con patologie mentali specifiche che al pubblico generico, che parte dalla contemplazione delle opere di Van Gogh e dalla loro forza creativa per instaurare un dialogo sulla salute mentale e aprire spazi di condivisione tra i partecipanti sulle proprie difficoltà e sofferenze. Nonostante queste consapevolezze, il settore dell’arte e della cultura, paradossalmente, è uno di quelli che versa nelle condizioni peggiori per quanto riguarda il benessere psicofisico degli addetti ai lavori. Il precariato diffuso, l’elevato tasso di disoccupazione e la sensazione costante di instabilità sono alcuni dei fattori principali che determinano un impatto fortemente negativo sulla salute mentale dei lavoratori e delle lavoratrici del sistema dell’arte italiano.
L’indagine di Artribune: come stanno i lavoratori e le lavoratrici dell’arte e della cultura in Italia?
Per comprendere meglio la portata del problema abbiamo realizzato un’indagine approfondita sul tema, comprensiva di un sondaggio anonimo a risposte chiuse e aperte, e indirizzato alla community di Artribune, a cui hanno partecipato quasi 600 persone. L’obiettivo del lavoro non è stato solo quello di analizzare lo stato della salute mentale di chi lavora con l’arte, ma anche di comprendere quanto questa tematica sia effettivamente presa sul serio dai professionisti del settore e dai loro datori di lavoro. Perché, se è vero che lavorare con la bellezza aiuta sicuramente a combattere lo stress, è altrettanto vero che, senza tutele e rispetto dei diritti dei lavoratori, il rischio di burnout è serio e concreto.

La base dati
Al sondaggio, aperto da agosto a dicembre 2024, hanno partecipato 568 persone, di cui il 73,6% femmine e il 25% maschi, mentre l’1,4% ha preferito non specificare il proprio sesso.
Gli under 35 sono il 24% del totale. La maggioranza è costituita da under 50 (54,4%), mentre gli over 50 sono il 45,6%. L’età più rappresentata è quella dei 50 anni. Per quanto riguarda i comuni di residenza dei partecipanti al sondaggio, quelli che superano la soglia dell’1% sono, senza particolari sorprese, alcune delle città più importanti e popolose del Paese: Reggio Emilia (1.1%), Verona (1.3%), Udine (1.5%), Trieste (2.2%), Genova (2.4%), Bergamo (2.6%), Firenze (3%), Bologna (3%), Napoli (3.2%), Venezia (3.4%). Nella top 3 si posizionano Torino (3.7%), Milano (13.5%) e Roma (14%). I settori di occupazione delle persone intervistate sono vari e numerosi. Si va dai festival al cinema, dalla pubblica amministrazione agli archivi, dalle biblioteche all’architettura. La maggior parte dei rispondenti opera però nei seguenti settori: Mostre (1.2%), Università (1.4%), Restauro (2.1%), Mercato dell’arte (2.5%), Editoria (3.5%), Teatro (3.5%), Gallerie (5.1%), in qualità di Artisti (5.3%) e nei Musei (18.5%). Poco più della metà (53,3%) lavora come autonomo o freelance, mentre il 46,7% è dipendente.

La maggior parte (77.8%) dei partecipanti lavora da più di 5 anni. Il 18,1% lavora da meno di 5 anni, mentre il 4% è impiegato esattamente da cinque anni.

Lavoro artistico e salute mentale: le risposte dei partecipanti
3/4 dei professionisti (75.5%) ritengono che il lavoro che svolge sia faticoso dal punto di vista mentale. Solo 1/4 di loro risponde in senso opposto.

Queste alcune delle motivazioni addotte dalle persone:
“Staccare dal lavoro è molto difficile, a meno che non ci si imponga di farlo e per farlo è necessario ‘allenamento’”;
“Troppa burocrazia che toglie troppo tempo e risorse all’organizzazione vera”;
“Spesso i turni sono massacranti perché non viene assunto personale sufficiente; inoltre spesso i turni non si sposano bene con attività extralavorative e personali. Il tempo libero si riduce al minimo e non si riesce più a coltivare nemmeno una passione, un hobby”;
“Per i problemi con i dirigenti incompetenti”;
“Per la precarietà, i progetti che finiscono e non si sa cos’altro ci sarà dopo”;
“Bisogna essere multitasking e spesso non ci sono orari”;
“Bisogna creare una rete di situazioni economiche che possano essere sufficienti per il sostentamento. A volte è decisamente faticoso e rocambolesco. Specie se si ha la famiglia da mantenere”;
“Scarso riconoscimento da parte dei dirigenti, interessati all’obiettivo tecnico, poca attenzione alla gestione delle risorse umane e alla comunicazione interna. Danno tutto per scontato, scoraggiano di fatto la capacità di iniziativa perché ‘turba’ lo status quo dei gruppi di lavoro, privilegiando quindi figure meno flessibili, creative e proattive. Le proposte non sono prese in considerazione a meno che alla fine non rientrino tra le urgenze o priorità”;
“Perché ti annichilisce il cervello, non hai alcun confronto o stimolo facendo il guardiasala”;
“Perché non solo devo produrre ma devo anche cercare continuamente il lavoro. La ricerca del lavoro stesso fa perdere tempo e spesso è inconcludente. Inoltre la maggior parte del tempo impiegato per lavorare non viene retribuito. Tutto questo è molto frustrante”;
“Incertezza del futuro, difficoltà nel farsi riconoscere giusti compensi, mercato saturo, zero tutele e nessun sindacato per la mia professione”;
“Per il peso della precarietà e dei budget perennemente ridotti disponibili per la realizzazione dei progetti; per le difficoltà di gestione e mantenimento della rete dei contatti, per la scarsa tutela degli operatori, in assenza di tariffe e retribuzioni altrove riconosciute da ordini professionali consolidati ecc.”.
Coloro che invece dichiarano di non sentire fatica mentale sul lavoro, sostengono che la passione e l’ambiente creativo e stimolante riescono a far sentire meno la fatica e i limiti del mestiere:
“Per la passione che provo diventa tutto leggero”;
“Perché mi piace il mio lavoro”;
“Se fai della tua passione il tuo lavoro, non fatichi”;
“È un lavoro stimolante, creativo e favorisce la socialità”;
“È sempre molto coinvolgente”.
Anche per quel che riguarda la soddisfazione e/o appagamento dato dal proprio lavoro, la maggioranza, circa 6 persone su 10 (il 63.4%), si dice non soddisfatta e/o appagata.

Guadagni nel settore dell’arte, ecco le risposte dei partecipanti
Rispetto al tema guadagni, la maggioranza (il 41.2%) afferma di guadagnare “poco”. Seguono, a poca distanza (35.9 %), quelli che dicono di guadagnare “troppo poco”. Solo 2 su 10 (il 22.2%) dichiarano di guadagnare “il giusto”. Una percentuale irrisoria (meno dell’1%) sostiene invece di guadagnare “molto”.

La questione salari bassi nel settore culturale-artistico era già emersa in diverse indagini realizzate negli anni dall’associazione Mi Riconosci e da quella pubblicata da AWI (ARTWORKERS ITALIA), associazione che dà voce a chi lavora nell’arte contemporanea, nel 2021. Secondo quest’ultimo report, il 48,9% delle persone che lavorano nell’arte ha un reddito annuo inferiore ai 10mila €, mentre il 58,5% di loro lavora più di 40 ore settimanali, di cui il 15,23% oltre 60 ore settimanali, con conseguenze negative sulla propria salute. Gli esperti, infatti, indicano una chiara correlazione tra il troppo lavoro e l’insorgenza di disturbi psicologici e dell’umore, come stress, ansia, insonnia, ma anche conseguenze più gravi come il burnout. Non solo: il 55% dei lavori svolti nel 2019 dagli art workers non è stato regolarizzato da contratti scritti. I professionisti che afferiscono all’ambito dell’arte contemporanea dimostrano infatti di essere scarsamente tutelati e rappresentati: l’88% non è iscritto a un sindacato o a un’associazione di categoria.
Alla nostra domanda: “Riesci a vivere del tuo lavoro o sei costretto/a fare più lavori contemporaneamente per raggiungere una stabilità economica?”, la maggior parte delle persone ha risposto che è costretta a fare più lavori. Anche in questo caso, i nostri dati combaciano con quelli raccolti dall’indagine di AWI, secondo la quale, il 79% degli art workers svolge più lavori.
Entrando nel dettaglio, i nostri intervistati hanno condiviso aneddoti e storie relative alla necessità di svolgere più lavori per arrivare a fine mese:
“Ci sono alcuni periodi (ancora troppi pochi) in cui riesco a vivere del mio lavoro, altri in cui sono costretta a fare altri lavori contemporaneamente per mantenermi nonostante io abiti in una città abbastanza economica”;
“La condizione economica è uno dei fattori di maggiore stress professionale. Il ritardo con cui i clienti o i partner pagano, unito all’esiguità del compenso della grande maggioranza degli operatori, in un paese che riconosce poco il merito culturale e in un settore del mercato del lavoro caratterizzato da un sistema piramidale, spesso impongono all’operatore culturale di ‘fare cassa’ altrimenti. Si cerca di lavorare in ambiti affini al proprio. Non è un caso che la grande maggioranza dei lavoratori nella cultura punti all’insegnamento”;
“Non percepisco sempre compensi per gli articoli, il 99% degli scritti sono gratuiti. Questo costringe a svolgere altri lavori non desiderati per vivere e a far diventare a scrittura critica più un hobby invece che la prima professione, come si vorrebbe”;
“Sono freelance ma ho anche un part-time da dipendente perché altrimenti non potrei vivere, almeno così sopravvivo”;
“Impossibile vivere come pittore o scultore. Devo fare l’insegnante per sopravvivere”;
“Lavoro sia come dottoranda che come giornalista, ma comunque non è abbastanza per poter vivere in una città come Milano e continuare a seguire progetti culturali”;
“Vivendo a Milano e lavorando full time il mio stipendio non mi permette di essere autonoma e devo ancora contare sull’aiuto dei miei genitori. Dopo lauree, master e scuola di specializzazione guadagnare così poco e non essere autonomi influisce molto sulla stabilità emotiva e mentale”;
“Devo accettare tanti lavori per raggiungere un fatturato minimo. Ciò comporta lavoro anche nel weekend e la sera”.
Tra coloro che rispondono che sono in grado di vivere con un solo lavoro, molti ammettono di poterlo farlo solo grazie all’aiuto del marito o perché vivono ancora a casa con i genitori:
“Riesco a vivere con il mio lavoro ma solo perché vivo ancora con i miei genitori e quindi non pago nessun affitto, da solo non riuscirei”;
“Il mio stipendio non mi permette di essere completamente autonoma. Posso permettermi di non avere un secondo lavoro perché ho un marito che ha uno stipendio migliore del mio”.
Lavorare nel settore dell’arte? Per molti un’attività secondaria
Di fronte a uno scenario simile, non sorprende il fatto che la maggior parte degli intervistati (71.8%) ritenga che spesso il lavoro in campo artistico e/o culturale viene considerato come un’attività secondaria o un hobby.

Per questo motivo, quasi 8 persone su 10 (il 79.8%) affermano di aver sminuito o di essere state sminuite per il lavoro che svolgevano in ambito artistico e/o culturale, perché ritenuto di secondaria importanza rispetto ad altri lavori.

Abbiamo chiesto agli intervistati di raccontarci la loro esperienza in merito.
Qui alcune delle testimonianze raccolte:
“Molte persone sono sorprese quando dico di essere un’attrice e mi chiedono se lo faccio proprio come lavoro. Una volta una persona che lavora in campo medico mi disse: ‘Sì ma tu giochi con i pupazzi’ – stavo facendo uno spettacolo di teatro di figura in quel periodo – ‘io lavoro con le persone’”;
“Quando dico che sono un’artista, mi chiedono: ‘Sì, ma di lavoro cosa fai?’”;
“Sento questo genere di commenti dal giorno in cui ho scelto questo percorso di studi. Avverto anche che fra colleghe c’è poca consapevolezza dell’importanza del nostro lavoro (siamo educatrici museali). Ci sono solo alcune categorie di lavori all’interno della cultura che sono riconosciuti come ‘veri lavori’, la maggior parte sono quelli a cui si accede per concorso pubblico”;
“Spesso mi si richiedono consulenze scientifiche in campo artistico, come se per me fossero un passatempo, dando per scontato di non pagarmi, senza valutare gli anni di esperienza e preparazione che costano a un professionista per definirsi tale”;
“Viene giustificato lo stipendio basso perché vengono considerati lavori poco utili, ciò è dovuto anche a una mancata attenzione da parte delle istituzioni che dovrebbero essere le prime a trasmettere l’importanza e il ruolo fondamentale dell’arte all’interno della società”;
“Io stessa spesso sminuisco il mio lavoro di fronte agli altri”;
“La cultura in generale è considerata secondaria e, insieme all’istruzione, subisce tagli di fondi dei ministeri”;
Precarietà economica, una triste realtà nel settore dell’arte e della cultura
Quasi la totalità dei partecipanti (95,1%) ha dichiarato inoltre che lo stato di precarietà economica che vive influisce direttamente sulla sua salute mentale.

Queste alcune delle spiegazioni fornite dalle persone:
“Anche se la salute mentale dipende da molti fattori, l’incertezza economica può peggiorare lo stato di ansia e rappresentare un ostacolo nel reperimento di aiuto (supporto psicologico e psichiatrico, periodi di riposo, ecc…)”;
“A trent’anni non posso permettermi una casa, figuriamoci qualsiasi altra cosa o proiettarmi in un futuro, fare progetti. Come potrebbe non influire?”
“Io ne sono l’esempio. Sono seguito da anni da un terapeuta e nel corso dell’ultimo ho iniziato un percorso con uno psichiatra e relativi psicofarmaci”;
“Non è una questione venale. Per un pieno appagamento lo stipendio dovrebbe corrispondere alle mansioni svolte, invece, soprattutto nel settore artistico, si tendono ad accettare condizioni in cui il tuo inquadramento contrattuale non corrisponde davvero a quello di cui realmente ti occupi e alle responsabilità che hai. Inoltre, una buona condizione economica ti consente di goderti il tempo libero (spesso troppo poco concesso nel settore)”;
“È come sentirsi costantemente in trappola, con l’acqua alla gola. Considerando che poi sono stati spesi soldi per laurea triennale, magistrale e master privato…”;
“Ci si abitua a vivere in bilico. Forse non saprei nemmeno vivere diversamente poiché è tutta la vita che vivo così. A volte, per assurdo, penso che sia una sorta di benzina per inventarsi sempre qualcosa per andare avanti. Ma forse un supporto ogni tanto non guasterebbe. In alcuni paesi esistono i sussidi per gli artisti. Credo sarebbe una buona e giusta cosa che ci fossero anche in Italia”;
“Pensare di dover farsi i calcoli anche per fare la spessa al supermercato o limitarsi nel comprare qualcosa che si vuole perché ci sono spese prioritarie, mina molto la salute mentale; si vive sempre controllando il proprio conto e a metà mese si spera sempre di ricevere una busta paga che ti permetta di sopravvivere”.
Salute mentale l’attitudine dei datori di lavoro nel settore dell’arte
Alla domanda se il proprio datore di lavoro o il settore di appartenenza prenda sul serio la salute mentale dei dipendenti o collaboratori, quasi 9 persone su 10 (88.4%) risponde di no. Solo 1 su 10 risponde di sì.

Questi alcuni dei motivi riportati dai partecipanti al sondaggio:
“Immagino perché la salute mentale a oggi, in molti ambiti, resta relegata a qualcosa che riguarda un gruppo ristretto (per così dire) di persone che presentano ‘disturbi’ cognitivi, o comportamenti che non sono ‘accettati’ nella formalità quotidiana”;
“Diventa tutto subordinato ai costi e non alla salute e al benessere delle persone”;
“L’ambito è talmente complesso che troppo spesso l’ansia che molto spesso fiancheggia il lavoro artistico in tutti gli ambiti (prestazioni artistiche, organizzative e tecniche) viene considerato come parte normale del nostro lavoro. La paura di non essere al livello è secondo me sempre presente, ma non dovrebbe essere così”;
“Ci sono troppe dinamiche di mobbing. Si confondono molto spesso i confini fra il datore di lavoro o committente e il suo collaboratore e si usa la scusa dell’amicizia per non pagare o, addirittura, quando si viene pagati, ci si deve sentire privilegiati per esserlo”;
“Ognuno pensa per sé, chi cade viene escluso”;
“Generazione boomer che minimamente neanche considera la salute mentale; anzi, alimenta il malessere con il proprio comportamento in azienda”;
“Non si parla mai di questi temi”.
Il malessere psicologico come una conseguenza del lavorare nell’arte
Come emerge dal sondaggio, il legame tra malessere psicologico e tipo di professione svolta, nel settore artistico è molto stretto. Oltre 3 persone su 4 (76.1%), infatti, dichiarano di aver sofferto di problemi di natura psicologica a causa del lavoro che svolgono.

Nonostante questo, solo poco più della metà (52.3%) degli intervistati si è rivolta a un esperto per risolvere questi problemi, confermando la mancanza di consapevolezza sul tema e la difficoltà di accesso ai sistemi di sostegno psicologico, per via di un’offerta pubblica carente da una parte e di una precarietà economica dei lavoratori e lavoratrici del settore dall’altra.
La difficoltà di rivolgersi a un esperto

Inoltre, la quasi totalità degli intervistati (93.7%) afferma che nel proprio luogo di lavoro non è prevista la presenza di una figura specializzata in grado di fornire supporto psicologico a dipendenti e collaboratori.
Anche quando questo servizio viene offerto dall’azienda, ben 9 volte su 10 (90.7%) i lavoratori/lavoratrici non ne usufruiscono.

Queste alcune delle spiegazioni inviate dagli intervistati:
“Non sempre puoi permetterti di essere aiutato, per fortuna che c’è la famiglia”;
“Da me è disponibile un supporto organizzativo di 5 incontri con soggetto esterno, aiuta a focalizzare, condividere, ma non risolve. Comunque soddisfacente”;
“Lavorando in proprio, ho cercato da sola questo tipo di supporto”;
“Mi sono rivolta all’ufficio predisposto, ma senza risultati, ho dovuto desistere per non rischiare di perdere il lavoro”;
“Ho P. IVA, non godo di questo servizio. Vado dalla psicologa autonomamente e, date le mie condizioni economiche, lo faccio solo due volte al mese perché diversamente mi sarebbe impossibile!”;
“C’è una psicologa con la quale si può prendere appuntamento, ma non vorrei che il mio dirigente e i miei colleghi se ne accorgessero”;
“Ho dovuto ricorrere al bonus psicologo a causa della frustrazione e del mobbing sul mio precedente posto di lavoro. Non potevo di certo permettermi cure”;
“Mi sono rivolta più volte alle risorse umane ma è stato totalmente inutile”;
“Ho potuto usufruire di supporto psicologico in passato: una vera risorsa che dovrebbe essere offerta a chiunque senza riserve”;
Viste le risposte precedenti, sorprende la maggioranza di ‘no’ (54.4%) ricevuti in risposta alla domanda:

Nonostante le percentuali, quando abbiamo chiesto agli intervistati di motivare la propria risposta, la maggior parte dei messaggi arrivati riguardavano la situazione relativa alla paura/timore di condividere i propri problemi psicologici:
“Ho sempre l’impressione che i miei problemi vengano sminuiti rispetto a quelli degli altri, soprattutto perché non ho un’attività grande, non devo pagare l’affitto (la galleria è di proprietà) e non ho dipendenti”;
“Per la paura di venire frainteso e non ritenuto abbastanza bravo, quando ero freelance / falsa Partita IVA”;
“Le persone tendono a evitare i problemi; parlarne con clienti e colleghi viene ritenuta una debolezza”;
“Tutto quello che dirò potrà essere usato contro di me”;
“I miei colleghi e il mio capo lavorano in questo settore da molti anni e, nonostante anche loro siano visibilmente in difficoltà, fingono che tutto sia normale e dovuto a un lavoro in cui bisogna sempre ‘correre’”;
“Dipende molto da chi sta ai vertici e quanto è realmente empatico e disposto a mettersi in discussione. Nel mio caso, non credo di avere un responsabile in grado di capire davvero i suoi dipendenti”;
“Perché è un tabù e in tutti i settori l’ansia da prestazione impedisce di dimostrare debolezze”;
“Difficile fidarsi”;
“Perché non veniamo prese mai sul serio anche se dobbiamo fare più cose e fare straordinari, ma se ci lamentiamo ci dicono: ‘Quella è la porta’”;
Di seguito alcune delle argomentazioni fornite da chi, invece, è riuscito ad aprirsi con colleghi o superiori:
“Perché sono tutti nella mia stessa situazione: stressati, malpagati e insoddisfatti”;
“La nostra struttura organizzativa è molto piccola e siamo tutti amici, quasi una famiglia per cui non ho paura di parlare dei miei problemi di ansia”;
“Con i colleghi condivido, con i superiori dipende, con qualcuno non si riesce nemmeno a parlare dei problemi tecnici del lavoro”;
“Per fortuna negli ultimi anni ho avuto la fortuna di condividere il mio percorso lavorativo con persone molto sensibili, empatiche e, soprattutto, comprensive”.

Salute mentale? I pregiudizi lo rendono un argomento tabù
Circa 8 persone su 10 (79.9%) confermano la presenza di molti pregiudizi e di un forte stigma nel settore artistico-culturale verso i temi legati alla salute mentale:

Così alcuni degli intervistati:
“Il mondo dell’arte contemporanea vive di persone sfruttate, sottopagate, maltrattate dai propri datori di lavoro. Ma sembra che sia il modo in cui funzionano le cose da sempre e quindi tutti lo accettano passivamente”;
“Dato che è considerato un lavoro secondario/hobby non è concesso avere problemi di salute mentale”;
“Non direi stigma, direi che spesso non vengono proprio considerati”;
“È il sistema che allontana chi è in difficoltà”;
“In generale, c’è poca attenzione al benessere psico-fisico del lavoratore. Il messaggio che passa da parte dei superiori verso i più giovani e/o verso i neoassunti è quello per cui questi ultimi dovrebbero essere grati per aver ricevuto l’opportunità di lavorare e fare esperienza in un ambiente dove la cultura, l’arte e la bellezza sono il pane quotidiano. E se inizialmente il solo fatto di essere immersi in tale ambiente basta a motivarti e a riempirti di entusiasmo, già dopo solo qualche mese i campanelli di allarme arrivano”;
“Non riguarda il nostro settore e basta, è una condizione generale, anche se effettivamente considerando che per altr3 lavorator3 il nostro è un hobby/passatempo (divertente e appagante) mi viene da pensare che oltre al danno subiamo (come settore) anche la beffa!”;
“Quando in passato ho provato a far presenti casi di mobbing e sessismo a un superiore mi è stato fatto intendere che quello dell’arte è un mondo difficile e che mi sarei fatta le ossa”.
C’è anche chi non è d’accordo e crede che questi pregiudizi siano stati ormai superati:
“Oramai no”;
“Sempre meno grazie al cielo!”;
“Non più, comunque, che in altri settori”;
“Si comincia a conoscerli e affrontarli con maggiore consapevolezza e menò tabù di un tempo”.
Ma quel è l’elemento che influenza maggiormente l’equilibrio psichico?
Quando abbiamo chiesto quale fosse l’elemento che influisce di più sull’alterazione del proprio equilibrio mentale al lavoro (es. la precarietà, i pagamenti in ritardo, l’incertezza, la flessibilità estrema, la mole di lavoro, ecc.), le risposte più ricorrenti sono l’incertezza, la precarietà e la mole di lavoro. Alcune persone hanno spiegato in che modo questi fattori influiscono sul loro stato di salute mentale:
“L’incertezza da un lato e la mole di lavoro eccessiva per brevi periodi di tempo dall’altro. L’alternarsi delle due mi provoca momenti di profonda ansia per il futuro seguiti da burnout perché non riesco a riposare, ma se riposo mi sembra di non fare abbastanza”;
“Il dover ‘mantenere’ il mio lavoro nel campo dell’arte facendone un altro che mi dà la possibilità di campare. È un dispendio di energie enorme”;
“Stipendio non commisurato all’esperienza e alle competenze, pagamenti in ritardo, demansionamento”;
“Orari di lavoro troppo lunghi e work-life balance sbilanciata sul lavoro”;
“Pagamenti dello stipendio in ritardo, pagamenti dei fornitori in forte ritardo con continue pressioni degli stessi, incertezza continua che non permette una programmazione mensile dei proprio tempo libero, mole di lavoro talvolta molto alta a fronte di tempistiche ristrette, assenza di supporto e collaborazione da parte dei superiori”;
“L’incertezza: ad esempio, quando si attende che le istituzioni pubbliche prendano decisioni relativamente alle proposte culturali (mostre, convegni, eventi, presentazioni, ecc.) che si sottopongono a esse. Sono infiniti i tempi di risposta, incerti i budget, farraginosi i meccanismi burocratici da affrontare”;
“Sicuramente la grande mole di lavoro, soprattutto burocratico nei rapporti con gli enti pubblici e i pagamenti in grande ritardo causano a tutta la nostra struttura e più generalmente al comparto dello spettacolo dal vivo grande incertezza e stress. Gli enti pubblici ci richiedono grande professionalità ma poi si dimostrano incapaci di fornire risposte chiare, soprattutto in merito di finanziamenti in tempi accettabili, con professionalità e competenza”;
“Lo scarso riconoscimento economico: avere il CCNL Multiservizi come addetto all’accoglienza ma svolgere mansioni specializzate (nel mio caso, visite guidate, laboratori didattici, progettazione servizi educativi). Il fatto di aver studiato anni (laurea triennale, magistrale, master II livello) per svolgere un lavoro altamente specializzato (educatore museale) che in Italia è scarsamente riconosciuto”.
Possibili soluzioni per tutelare la salute mentale dei professionisti di arte e cultura
Infine, abbiamo chiesto agli intervistati quali sono, secondo loro, i servizi e gli strumenti che dovrebbero essere messi a disposizione dei lavoratori e delle lavoratrici del settore artistico e culturale in Italia per tutelare meglio la loro salute mentale. Sono emerse proposte e idee interessanti, che condividiamo con i lettori, nella speranza di migliorare la qualità del lavoro e lo stato di salute delle persone che operano nel settore:
“Accesso a supporto psicologico: offrire accesso gratuito o a costi ridotti a servizi di consulenza e supporto psicologico può essere cruciale per gestire stress, ansia e altri problemi di salute mentale, frequenti in un ambiente lavorativo incerto e competitivo. • Reti di supporto professionale: creare reti o gruppi di supporto tra professionisti del settore può favorire uno scambio di esperienze e consigli, riducendo il senso di isolamento e incrementando le opportunità di collaborazione e sostegno reciproco. • Sicurezza contrattuale e finanziaria: sviluppare politiche che assicurino maggiore stabilità contrattuale e supporto finanziario, come la creazione di fondi di emergenza per i lavoratori in difficoltà e incentivi per contratti più stabili. È inoltre essenziale definire un tariffario e un salario minimo, ridurre la dipendenza dagli appalti a cooperative e valorizzare il lavoro dei dipendenti. • Maggiori opportunità di lavoro e concorsi pubblici: incrementare il numero di posti di lavoro e concorsi pubblici a livello regionale per assicurare più opportunità stabili e di qualità nel settore. • Assistenza legale e consulenza fiscale: poiché molti operatori del settore lavorano come liberi professionisti, è utile fornire consulenza legale e fiscale a tariffe agevolate o tramite associazioni di categoria, per alleviare lo stress legato alla gestione di aspetti burocratici e legali. • Iniziative di bilanciamento vita-lavoro: promuovere politiche che favoriscano un equilibrio tra vita professionale e personale, come orari flessibili o la possibilità di lavorare da remoto, può aiutare i lavoratori a gestire meglio il proprio tempo e le proprie energie”.

“Ci vuole sicuramente un sindacato comune che possa tutelare gli interessi dei lavoratori del settore e stabilire le regole del mercato. Poi servirebbe una cassa pensionistica che non sia follemente dispendiosa come la gestione separata INPS, e infine una convenzione statale/regionale con la sanità e l’Ordine degli psicologi, per poter accedere al servizio sulla base del reddito/ISEE”;
“Bisognerebbe innanzitutto considerare i lavoratori come professionisti e riconsiderare le mansioni (svolgiamo troppe mansioni distinte contemporaneamente). Bisognerebbe ricalcolare le retribuzioni (CCNL). Considerare (non solo a parole) questo settore portante dell’economia aiuterebbe indubbiamente a migliorare la qualità del lavoro e, di conseguenza, la qualità di vita dei lavoratori”;
“Forse sarebbe utile creare una specie di albo degli artisti, in modo tale da essere quantomeno riconosciuti come figure professionali e riuscire a essere presi più in considerazione”;
“Gli uffici del personale dovrebbero fornire un servizio di consulenza psicologica su prenotazione
psicologo/ coaching convenzionato almeno due volte al mese”;
“Prevedere un sussidio nei momenti di difficoltà per gli artisti. Come avviene in Inghilterra”;
“Iniziare con l’introduzione di un salario minimo (è inaudito che i laureati debbano essere pagati 5,50€ l’ora)”.
Alessandro Mancini
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