Il production designer Stefano Baisi ci racconta il film Queer di Guadagnino

Diretto da Luca Guadagnino, e adattamento dell’omonimo libro di William S. Burroughs, Queer è il primo progetto cinematografico dell'architetto e designer. Con cui abbiamo parlato per scoprire qualcosa in più riguardo al look del film

Si incontrano e si conoscono nel 2017, a Crema, tramite amici comuni e iniziano a lavorare insieme: sono Luca Guadagnino e Stefano Baisi, architetto e designer entrato a far parte dello studio di interior design del regista. A firmare la scenografia di Queer, nuovo film del regista di Chiamami col tuo nome e Challengers, è proprio Baisi che, al suo primo progetto cinematografico, dimostra una grande ricerca dei dettagli oltre che promettente talento nel creare mondi diversi dal nostro. Queer, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia a settembre 2024, è nelle sale italiane dal 17 aprile con Lucky Red. Tratto dall’omonimo libro di William S. Burroughs, è una storia di solitudine e passione in cui la dimensione onirica domina (e a volte predomina) sulla realtà.

Photo by Yannis Drakoulidis ©2024 The Apartment S.r.l., FremantleMedia
Photo by Yannis Drakoulidis ©2024 The Apartment S.r.l., FremantleMedia

L’intervista con Stefano Baisi, production designer di “Queer”

Queer rappresenta una sua “prima volta”. Che esperienza è stata?
Direi un’esperienza trasformativa. Mi sono confrontato con una parte di me che non conoscevo e ho scoperto di avere delle forze e delle energie, sia creative che fisiche, che non pensavo di avere. Conoscevo Luca da diverso tempo, lavoravo con lui da almeno 5 anni, quando abbiamo iniziato a lavorare su Queer, lui probabilmente era già consapevole che io avessi questa possibilità delle mie corde.

Aveva mai pensato al cinema?
Per me è sempre stato un po’ un pensiero naif. Il cinema è sempre stato una mia passione ma parallela e non l’ho mai coltivata come cinefilo o esperto del settore. Ho sempre vissuto questa arte come una forma di intrattenimento.

C’è chi dice che design e architettura sono punto di incontro ed equilibrio tra scienza e arte. Cosa ne pensa?
Credo sia una definizione corretta. Sicuramente l’architettura lo è più del design, anche se lo è tutto ciò che ha a che fare con la forma, con la creazione di oggetti o di opere che rimangono nel tempo. Tutto questo secondo me ha a che fare con l’arte. Anche se, da un punto di vista tecnico, ogni opera, anche nell’ambito artistico fine a se stesso,  ha le sue criticità. Vedo l’architettura è una forma più consapevole.

“Queer”. Dalla sceneggiatura al film

Dopo aver letto la sceneggiatura di Queer, quali sono state le prime osservazioni condivise con il regista?
Ho detto a Luca che erano un sacco di set anche se abbiamo iniziato sin da subito un dialogo fitto legato alla natura dei personaggi e al loro carattere piuttosto che alla pratica del set. L’ambizione era quella di trasferire una parte dei personaggi nel racconto e quindi di rendere concreti tutti i concetti che sono esplorati nel film. E quindi il concetto del doppio, di specchio, del riconoscersi in un’altra persona, della simmetria. Concetti trasposti poi sia nella creazione dei set sia nell’immagine di queste due figure che si uniscono ma allo stesso tempo si respingono.

North America, Inc., Frenesy Film Company S.r.l. All Rights Reserved
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In ogni scena, attraverso l’ambiente e i colori, si percepiscono anche la claustrofobia, l’ambiguità, la solitudine…
Devo dire che la scelta dei colori è stata per me la parte un po’ più complessa. C’è stato uno studio molto importante delle cromie. Volevamo innanzitutto creare ed enfatizzare lo stato onirico della storia, quindi questa dimensione un po’ sognata di questa Città del Messico che non esisteva se non attraverso gli occhi di Burroughs, così come la giungla ecuadoriana e Panama City. L’idea era quella che fosse tutto un po’ alterato anche determinato dall’uso di sostanze che fanno i protagonisti. Abbiamo cercato di usare colori acidi, vivi, accesi. E allo stesso tempo abbiamo cercato di portare all’interno delle scenografie colori che potessero enfatizzare il desiderio e il senso del desiderio che Lee prova verso il ragazzo e viceversa.

Riguardo l’appartamento di William cosa può dirmi?
Dal punto di vista architettonico sono sostanzialmente due quadrati che si intersecano in pianta, mentre dal punto di vista compositivo generale abbiamo cercato di trasmettere questo senso di desiderio forte e per farlo, per enfatizzare questo aspetto, abbiamo scelto di portare un colore più vivo nel pavimento.

Photo by Yannis Drakoulidis ©2024 The Apartment S.r.l., FremantleMedia
Photo by Yannis Drakoulidis ©2024 The Apartment S.r.l., FremantleMedia

L’amore e il passato di Città del Messico in “Queer”

Il tema dell’amore è molto forte. Lo è in questa storia come in tutto il cinema di Guadagnino e in tutta l’opera di William S. Burroughs. Cosa era fondamentale scenograficamente per essere fedele a questo?
Prima di iniziare questa avventura non ero un esperto di Burroughs. Avevo letto Queer mesi prima perché mi era stato regalato da Luca, che probabilmente aveva già un’idea rispetto al mio coinvolgimento, e leggendo, quello che arrivava a me erano atmosfere cupe e fredde, e luoghi più simili all’inferno che a una dimensione amorosa. Poi nel dialogo con Luca, scoprendo io maggiormente Burroughs, siamo arrivati a definire che doveva essere un’altra cosa, e questo si è tradotto nella creazione di una Città del Messico che non fosse cupa ma tutt’altro.

North America, Inc., Frenesy Film Company S.r.l. All Rights Reserved
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Come ha lavorato alla ricostruzione della Città del Messico degli Anni Quaranta?
Con alcuni componenti del team abbiamo fatto un lungo viaggio. Siamo partiti dall’Ecuador, che abbiamo girato in buona parte, siamo poi passati attraverso Panama city e siamo giunti a Città del Messico. Questi luoghi sono cambiati molto nel corso di questi settant’anni anche se hanno mantenuto abbastanza la loro identità. Andare lì ci ha permesso di comprendere bene le proporzioni, le relazioni tra le cose, tutto ciò che era quel mondo che comunque è molto lontano dal nostro. E poi c’è stata un’immensa ricerca storica, accuratissima, che è stata fatta con immagini dell’epoca. Come team abbiamo creato grandi sinergie e siamo riusciti a portare a casa un lavoro mastodontico, di cui sono molto soddisfatto, in poco tempo.

Il terzo atto del film non è presente nel libro ma Guadagnino ha raccontato di aver sentito la necessità di aggiungerlo. Come è andata?
Questo atto è il frutto del lavoro di Luca con Justin Kuritzkes. Hanno cercato di dare coerenza alla storia immaginando che comunque si sarebbe compiuta in qualche modo. Per farlo hanno coinvolto studiosi di Burroughs come Oliver Harris, uno dei suoi più grandi e importanti studiosi, e hanno creato questa parte finale di loro pura fantasia restando coerenti con la storia. Io in questo atto ho solo cercato di portare il mio contributo creando la giungla e la capanna, dando significato all’architettura del momento.

Ma il cinema è ora entrato nella sua vita in modo professionale o Queer resterà un unicum?
Ho sperimentato grazie a Luca questa nuova disciplina, questa nuova arte e devo dire che sono molto ispirato e coinvolto. Mi sento spinto da una forza molto forte, che è proprio quella del cinema, di essere parte di un ingranaggio di questo sistema complesso che però porta alla creazione di opere che sono un vero miracolo. Ogni ogni opera secondo me mette in scena la creazione di un mondo che non esiste e anche quando si prende ispirazione da una storia vera. Sento che questo nuovo lavoro, se vogliamo chiamarlo così, mi dà molto di più rispetto al design e all’architettura più generali da cui sono partito.

Margherita Bordino

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Margherita Bordino

Margherita Bordino

Classe 1989. Calabrese trapiantata a Roma, prima per il giornalismo d’inchiesta e poi per la settima arte. Vive per scrivere e scrive per vivere, se possibile di cinema o politica. Con la valigia in mano tutto l’anno, quasi sempre in…

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