“I tempi dei fatturati astronomici nel mondo della moda sono finiti” spiega l’esperta

La storica e studiosa di moda Aurora Fiorentini si racconta e riflette sulla crisi del settore, a cui si potrebbe reagire valorizzando il Made in Italy, il patrimonio storico e la creatività dei fashion designer. L’intervista

Gli ultimi due decenni sono stati caratterizzati da una particolare attenzione verso la moda. Nuovi nomi, brand emergenti e visioni contrastanti. La moda è la cartina tornasole per comprendere meglio lo stato della società. E in un mondo travolto dalle crisi, anche la moda cambia per continuare ad attrarre il pubblico. Tuttavia il settore è in difficoltà. Cosa manca? Quali sono i marchi del Made in Italy? Che funzione svolgono le mostre sulla moda? Abbiamo posto queste e altre domande a Aurora Fiorentini, esperta in moda, consulente museale, curatrice, docente in università come: Polimoda di Firenze, IULM di Milano e LUISS di Roma.

Intervista alla storica e studiosa di moda Aurora Fiorentini

Secondo lei perché si parla di “morte della moda”?
Personalmente, mi auguro che la moda non muoia mai. Tuttavia sono d’accordo con il giornalista Antonio Mancinelli che nota come la moda abbia ormai perso la poesia e lo storytelling. I nuovi designer sono sotto il controllo degli investitori, contano più le strategie di marketing che l’ispirazione e il saper fare. Il problema della moda sono le multinazionali, grandi poli di lusso che, inseguendo la crescita del fatturato, hanno azzerato le differenze fra i brand. Oggi è quasi impossibile distinguerli, mentre prima avevano dei caratteri unici.

Aurora Fiorentini. Photo: Angelo Guttadauro
Aurora Fiorentini. Photo: Angelo Guttadauro

In che modo la crisi globale influisce sul settore moda?
La situazione attuale, come tutti i periodi di crisi, non agevola la creatività, le priorità sono altre. Il Rinascimento italiano, fu tale anche per le condizioni di pace, ricchezza e stabilità politica nell’Italia centrale del periodo; elementi essenziali per indurre una società a concepire nuove visioni e prospettive.

Moda: si torna a sfilare in Sala Bianca di Palazzo Pitti
Moda: si torna a sfilare in Sala Bianca di Palazzo Pitti

La richiesta di un maggior numero delle collezioni penalizza la ricerca?
Penso di sì. La moda è nata con la presentazione di due collezioni all’anno: primavera-estate e autunno-inverno. Quindi, la necessità di presentare tante collezioni alle varie fashion week inevitabilmente ha penalizzato la qualità. Molte collection sono prive di una line-up chiara, con capi accostati un po’ a caso. E il cliente, che ormai nota queste cadute di stile, rinuncia a investire cifre considerevoli in prodotti che percepisce depauperati in termini di materie prime e innovazione. I guadagni facili e spropositati, rispetto al reale valore dell’oggetto, ormai privo di poesia e qualità, a lungo termine generano una crisi del mercato. In passato ogni stilista proponeva tagli, materiali, volumi inediti, oltre a nuove destinazioni d’uso e diverse soluzioni creative. Adesso è tutto abbastanza noioso, tranne che in rari casi.

Secondo lei qual è oggi il target a cui puntano le grandi maison?
Esistono due categorie di clienti. Il cliente consapevole e colto di fascia intermedia non è più il riferimento per i brand di lusso che ormai mirano ai nuovi ricchi, agli influencer. Un target che, avendo solo bisogno di essere identificato da un’etichetta riconoscibile, non bada a qualità e stile. Oggi la maggior parte delle persone che acquista questi brand lo fa per avere un logo da esibire, non per un’attenzione al prodotto.

Nel 2024 almeno 11 marchi mondiali hanno cambiato il loro direttore artistico. Secondo lei perché tanti cambiamenti ai vertici della moda?
I grandi investitori e manager che stanno dietro ai poli di lusso pensano di poter aumentare i profitti risparmiando sulla figura del creative director. In alcuni casi si è arrivati al punto di farne a meno, facendo creare le collezioni all’ufficio stile senza un leader. Poi, al di là dei fisiologici momenti di stabilizzazione del settore, l’attuale crisi impedisce il raggiungimento dei passati fatturati (forse non più replicabile); ma, come se non fosse evidente la situazione globale, la responsabilità dei mancati astronomi fatturati ricadere sui creative director che, come nel caso di Alessandro Michele in Gucci, vengono accompagnati velocemente alla porta.

Quali sono per lei i grandi nomi della moda italiana di 30 anni fa e di oggi?
I tre grandi nomi degli Anni ‘90 per me erano Gianfranco Ferré, Giorgio Armani e Gianni Versace. Nella scia della sartorialità classica Valentino Garavani incarna la tradizione italiana del “bello ben fatto” per la sua vestibilità perfetta e i tessuti (ora vedremo cosa succede con Alessandro Michele). Tra i brand italiani di oggi mi sembrano interessanti Miu Miu, Prada e Marni per il loro essere contemporanei e attenti alle esigenze della vita moderna. E anche Rick Owens, che ormai considero un marchio italiano (ride), dato che da anni produce in provincia di Modena. Insomma, le sue collezioni sono tutte Made in Italy, dalla pelle delle famose giacche bikers, ai jersey, fino agli accessori.

Una parola sugli anni da Gucci?
È stato un periodo bellissimo. Nel 1996, sono stata coinvolta da Domenico De Sole, uno dei più grandi manager che io abbia mai conosciuto, nell’arduo rilancio della griffe fiorentina, con un progetto importante e costoso di heritage marketing. Abbiamo lavorato alla ricostruzione della storia del brand, all’organizzazione di un archivio e di un museo aziendale. L’idea di De Sole era fondare un grande polo internazionale italiano: il famigerato Gucci Group. Sono orgogliosa di aver fatto parte di questo ambizioso progetto contribuendo alla creazione di un solido ed efficace storytelling.

Ci può raccontare di più?
Quando negli Anni ‘90 sono arrivata in Gucci c’erano pochi pezzi, così ho impiegato diversi anni a fare ricerca e campagne di acquisizioni presso privati e case d’asta internazionali. Oltre a ricomprare oggetti a marchio Gucci (scarpe, borse, vestiti, foulard, gioielli, arredi…), abbiamo acquisito una Cadillac, un pianoforte a coda, fotografie di celebrities e importanti brevetti. Ricordo poi come Domenico De Sole, nel 1999, abbia cominciato ad acquisire aziende di prestigio e qualità come Yves Saint Laurent, Sergio Rossi, Bottega Veneta, Boucheron, Balenciaga, McQueen; nomi incredibili per la storia dell’Haute Couture e del Prêt-à-Porter che entravano nel grande polo del lusso italiano… ma il sogno purtroppo è durato poco.

Uno dei disegni di Vittorio Accornero per Gucci
Uno dei disegni di Vittorio Accornero per Gucci

Da storica della moda lei ha curato molti progetti di heritage marketing. Potrebbe dirci di più in proposito?
Insieme a Stefania Ricci sono stata tra le prime ad occuparmi di heritage marketing e di musei d’impresa a livello nazionale. Dopo l’archivio e il Museo Gucci, ho seguito Hugo Boss, Fendi, Valentino, Dior, Zegna. Purtroppo però, quando un brand finisce in mano alle multinazionali gli archivi storici spesso diventano luoghi in cui “saccheggiare” le idee, piuttosto che spazi aperti al pubblico per raccontare il DNA e la storia unica e irripetibile di una griffe.

Lei da anni organizza mostre di moda. Le più importanti?
La più grande, in cui sono stata co-curatrice, è stata La Sala Bianca. Nascita della Moda italiana” che, tra il 1992 ed il 1994, ha viaggiato tra Palazzo Strozzi di Firenze, il Louvre di Parigi e infine il Guggenheim di New York. Un evento epocale, con regia creativa erano di Gae Aulenti e di Luca Ronconi, oggi studiato da nuove leve di studiosi della moda e persino argomento di tesi di laurea.

L’ultimo progetto?
Partirò e porto le cose a casa, mostra dedicata a Eleonora Duse al Teatro della Pergola di Firenze. In occasione del centenario della morte della celebre attrice, abbiamo presentato per la prima volta capi, oggetti e documenti provenienti da una collezione privata.

Secondo lei qual è la funzione principale delle mostre sulla moda oggi?
Emozionare, incuriosire. Tutte le mostre, indipendentemente dal taglio che, a seconda delle finalità, può essere didattico o visionario, dovrebbero avere finalità accrescitive. Insomma, sulla base di solidi progetto curatoriali, le esposizioni dovrebbero essere dei catalizzatori di senso e significato, concepite per offrire spunti di riflessione e studio, suscitare visioni, porre interrogativi, stimolando il pensiero e la creatività.

Vova Motrychuk

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