Esordire con una rivista su carta in un momento come questo, con la crisi e la crescita esponenziale del digitale. Perché?
Sarebbe una follia editare una rivista di disegno cartacea pensando al gran pubblico o alle edicole, con una tiratura sopra le 2.000 copie. Soprattutto senza avere una struttura di distribuzione e diffusione alle spalle. Ma l’idea per Le Petit Néant è stata fin dagli inizi un’altra. Innanzitutto parliamo di una pubblicazione annuale con una tiratura di 500 copie. Questa scelta non è soltanto legata ai costi. Avendo avuto un budget superiore, avrebbe avuto senso avere una tiratura maggiore? Personalmente mi piace l’idea di una pubblicazione a tiratura limitata. Una copia diventa subito un’oggetto raro, prezioso… Carta o digitale non è mai stata una vera domanda. O carta o nulla, questa era l’idea. O offset o nulla, altra idea. Amiamo la carta e il suo odore, la sua fisicità. L’atto di sfogliare è in sé un atto fisico, che coinvolge vari sensi. Visione, tatto e odorato. Nessuno va sottovalutato, tanto più se si ha a cuore l’avere fra le mani qualcosa di raro. La scelta della carta ad esempio determina la lettura: quante volte capita di avere fra le mani un libro o una rivista il cui contatto è sgradevole?
Il digitale ha già superato l’analogico per prezzi e questioni di diffusione o di spazio. Ma non ha superato, e credo non lo farà mai, il rapporto fisico e più intimo che ci unisce a oggetti come libri, vinili, cassette video e audio, e via dicendo. La dimensione digitale del Petit Néant (sito, facebook, vimeo) è solo un prolungamento virtuale della sua forma cartacea.
Chi sta dietro il progetto? E perché si chiama Le petit néant?
L’idea della rivista mi è venuta anni fa e il materiale per il primo numero l’ho, diciamo, raccolto da solo anche grazie alla collaborazione di amici. Ottimo materiale, pensavo. Ma mancava una forma, una struttura. Uno scheletro. Ignoravo insomma in che cosa consistesse il ruolo del grafico e come potesse, con pochi gesti, dare senso a un insieme di disegni. In quel momento (un anno fa) ho conosciuto Giulia Garbin, grafica italiana che vive a Londra. Insieme abbiamo dato forma a Le Petit Néant. Una collaborazione indispensabile. Oggi quindi siamo in due dietro alla rivista. Io mi occupo dei contatti con gli artisti e diciamo della parte curatoriale. Giulia si occupa della forma e della struttura. Ovviamente queste due parti avanzano grazie a un continuo dialogo.
Il titolo è stato il primo passo verso un’identità e mi rendo conto, oggi, che quello che all’inizio sembrava soltanto un titolo “poetico” rivela oggi molto di più sul contenuto della pubblicazione. Quasi come se si stesse sviluppando intorno al titolo. Ho vissuto a Parigi per vent’anni, quindi la scelta del francese è stata naturale. Mi piaceva l’idea di qualcosa che fosse allo stesso tempo piccolo ma infinito e che potesse suggerire un approccio relativista rispetto alle cose.
Il “piccolo niente” mi ricordava insomma il nostro posto rispetto all’universo. E non solo nostro come esseri umani, ma anche come creatori; in questo caso rispetto al disegno. Prenditi poco sul serio, quello che fai, per quanto ti sembri immenso, sarà sempre un piccolo nulla! Questa idea, che potrebbe sembrare triste o portare al nichilismo, a me crea sollievo. Vi è anche una dimensione naturale che ricorda l’universo. Ho sentito recentemente un fisico teorico parlare del famoso big bang, dicendo che all’inizio tutto era contenuto in uno spazio paragonabile a una testa di spillo. Ma al suo interno lo spazio era già infinito. Assolutamente impossibile immaginare un concetto del genere. Ecco, Le Petit Néant mi ricorda questo tipo di sensazione.
Il primo numero raccoglie i contributi di artisti provenienti da diverse nazioni. Dall’Italia ci sono personaggi celebri come Toccafondo ed Ericailcane. E poi da Francia e Belgio, Messico, Gran Bretagna e Stati Uniti. Come hai messo insieme il gruppo?
Se si vuole esplorare il disegno come materia vivente bisogna cercare in giro per il mondo. Limitandosi all’Italia avremmo avuto un certo tipo di colore, seppur dalle infinite sfumature. E così per la Francia, Inghilterra ecc. Quindi lo “spettro” doveva essere più ampio possibile.
Gli artisti sono stati messi insieme sia contattandoli direttamente e invitandoli, sia attraverso conoscenze comuni. Toccafondo ed Ericailcane ad esempio sono stati portati grazie a Roberto Carro, amico e collaboratore. Altri li ho invitati con una mail il cui oggetto era la formula passepartout “For the love of drawing”. Essendo anche io un disegnatore, si creava quasi subito una fiducia istintiva. Anzi, dirò di più. La fiducia è alla base di questa collaborazione. Tutti i disegni mi sono stati “affidati” senza reali garanzie. Dicevo solo che volevo fare qualcosa di bello ma non avevo né un’idea delle date, né nomi, né informazioni pratiche, né nessuna esperienza di editore alle spalle… Eppure le persone si sono fidate. E questo è alla base di questo tipo di progetto, che non si basa su uno scambio economico ma su una visione comune. I disegnatori di Canicola (Giacomo Nanni, Giacomo Monti e Francesco Cattani) li conoscevo grazie alle loro pubblicazioni. Così come Henrik Drescher o Frederic Coché. Altri, come Cyop & Kaf o Diego Miedo, sono amici che ho conosciuto quando ho vissuto a Napoli. Tutti gli altri sono stati delle “scoperte”.
La partecipazione funziona quindi in due modi : da una parte per “invito” dall’ altra è totalmente aperta : chiunque può spedire disegni.
Dove sta andando il disegno? È sempre in bilico fra illustrazione, arte contemporanea, cinema… Tu come la vedi?
Non so dove stia andando il disegno e non credo stia andando da qualche parte in particolare. Credo che stia, come sempre, “fluendo”. Il suo essere in bilico, come dici tu, è una delle sue caratteristiche e non potrebbe essere altrimenti. Cercare di definirlo con precisione non ha senso e ne toglierebbe forse la bellezza e la potenza. Nelle mostre dedicate al disegno, il disegno prende mille volti: acquerello, tempera, inchiostro, digitale, su carta su tela su muro… come definirlo? Io credo che, finché muta, sfugge alle definizioni e fluisce, appunto, continuerà ad essere vivo. Meno vivo è, invece, appena trova una forma e se ne accontenta. Anche per questo proveremo, con Le Petit Néant, a esplorare continuamente nuove forme e cambiare non solo quello che non funziona, ma anche quello che funziona.
In questo primo numero non c’è un fil rouge, mentre per il secondo è annunciata una ricerca sull’“espressività della narrativa pittorica”. Qualche anticipazione?
Il primo numero non aveva in effetti una tematica, anche se credo che alla fine si senta un filo conduttore, una presenza che orchestra i disegni… Per il secondo numero chiederemo ai partecipanti sia disegni che brevi narrazioni per immagini. L’unica condizione è l’ assenza di testo. Attenzione però: l’idea non è quella di avere dei fumetti muti, ma piuttosto di esplorare modi diversi di raccontare per immagini, appoggiandosi sulla loro ambiguità. I disegni devono quindi scatenare la fantasia e non raccontare una storia con inizio e fine. Storie aperte, insomma. Non c’è un tema principale, ma ecco degli spunti da esplorare : il mondo naturale e quello minerale, le varie dimensioni nascoste nella realtà quotidiana, il viaggio e il piccolo nulla. Ma nessun disegno verrà escluso semplicemente perché non segue questi spunti. Come per il primo numero, i disegni verranno scelti per il senso che hanno complessivamente all’interno della rivista.
Hai stampato in Olanda. Per quale motivo?
Ho avuto la fortuna di conoscere i disegnatori della mitica rivista Le Gun a Londra, alla quale mi sento, per molti aspetti, vicino. Mi hanno consigliato di contattare la tipografia Lecturis, in Olanda, nota per l’ottima qualità e la loro attenzione per i clienti. Prima di stampare la rivista ho avuto la fortuna di conoscerli, di incontrarli varie volte e di farmi consigliare su prezzi e materiali. E di bere assieme un’ottima pinta di birra. Ho visto che erano seri e che avevano preso a cuore il progetto. Ancora una volta, la fiducia è fondamentale.
Marco Enrico Giacomelli
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