Bandiere di verità
Un premio Oscar che balla in maniera sopraffina. Peccato però che a farlo sia la sua controfigura. E una fotografia che celebra una vittoria guerresca. Peccato che sia una messa in scena, perché il “buona la prima” è andato perduto. La lingua biforcuta delle immagini nell’analisi di Marianna Trimarchi.
Recentemente, nel mondo del cinema, Sarah Lane, controfigura ne Il cigno nero (Back Swan, Darren Aronofski, 2010), ha affermato di essere stata invitata a tacere sul fatto che la vincitrice dell’Oscar Natalie Portman abbia eseguito soltanto il 5% dei passi di danza previsti dalla sceneggiatura, contro l’85% di cui si erano invece vantati i direttori della produzione e il coreografo (C. Morgoglione, Passi di danza, nudi o salti mortali: l’esercito invisibile delle controfigure, la Repubblica, 29 marzo 2011).
Il problema, oltre a essere di ordine professionale, riguarda da vicino lo spettatore e il suo rapporto con le immagini. Oggi gli interrogativi e i dubbi sulla presenza di controfigure si manifestano per lo più nei canali del gossip oppure presso gli specialisti, un pubblico particolarmente sensibile ed esperto sull’argomento. Ciò vuol dire che lo spettatore medio non sa se le immagini che vede sono “vere” oppure no.
Tuttavia, finché si è al cinema o si guarda un film, si può sempre abbattere la parete della credulità e mettere in dubbio quanto viene mostrato, dicendo tra sé e sé che “è comunque un film”. Cosa succede però se è la Storia a presentare un’immagine e a darne una spiegazione ideologica, tanto da raccogliere il consenso della società?
Flags of Our Fathers (Clint Eastwood, 2006) riflette drammaticamente sulla produzione di immagini e sulla loro penetrazione sociale. Il film ruota intorno alla fotografia di cinque soldati che issano la bandiera americana su un promontorio, scattata nella consuetudine di una giornata di combattimento a Iwo Jima, l’isola nipponica che l’esercito americano invade nel 1945. Ma la bandiera della foto non è quella originale. Una prima bandiera, issata in segno di vittoria, viene fotografata e subito reclamata dal capitano dell’esercito. Un secondo plotone, con un altro fotografo al seguito, deve allora ripetere l’operazione: sarà questa la bandiera che finirà sui giornali e passerà alla Storia, perché il primo fotografo perde accidentalmente lo scatto originale.
“Nessuno si era accorto di quella seconda bandiera. Poi videro tutti quella foto e ognuno raccontò la storia a modo suo”. Ciò che conta non è la verità che si cela dietro le immagini, ma la versione degli eventi che i poteri dominanti consegnano alla Storia. Inutili si rivelano, nel film, le lamentele dei soldati che hanno presieduto all’evento, come se la parola del testimone non avesse importanza. Affinché la società viva una grande emozione collettiva non servono tanto le parole, quanto la moltiplicazione di segni che rinforzino quello che la fotografia ha rappresentato. Le madri dei soldati possono solo limitarsi a ipotizzare la presenza dei figli nella celebre fotografia, confutandola oppure accettando la didascalia che ne elenca i nomi, ma i loro restano solo dubbi senza certezza.
Le immagini, di per sé mute, vengono fatte parlare in base al linguaggio e ai valori delle società in cui nascono, in modo particolare per ogni guerra. Il film lo dimostra bene: né in Flags of our fathers, né nello speculare Lettere da Iwo Jima (2006) gli eserciti vedono i rispettivi nemici. È una guerra di immagini che lottano contro altre immagini. I soldati vedono e conoscono l’idea di nemico, ma non il suo volto. Eastwood evita di caratterizzare i nemici come personaggi: si vive, in ciascun film, una storia di punti di vista alternati e interscambiabili solo a visione avvenuta, senza che alcun volto si offra come identificazione dell’Altro.
In Lettere da Iwo Jima si spera di rintracciare i volti dei soldati americani protagonisti di Flags, di scorgere segnali e parvenze di qualcosa che già si conosce. Ma ormai si è passati dall’altra parte della barricata e questa volta lo spettatore si identifica con i soldati giapponesi, combatte contro un nemico di cui non conosce il volto. Solo l’immagine. E questa basta perché la lotta si perpetri. Una lotta contro immagini a cui si è imposto di parlare il linguaggio della guerra.
Marianna Trimarchi
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