Prometheus, l’ultimo film di Ridley Scott, è stato ampiamente presentato e propagandato come il prequel ufficiale del seminale Alien (1979). In larga parte è così. In realtà, però, con Alien il nuovo capitolo condivide il riferimento originale (persino nel look delle tute da “esterno” che indossano i protagonisti): Terrore nello spazio (1965) di Mario Bava. È uno dei rarissimi film di fantascienza italiana e, al tempo stesso, uno dei vertici assoluti del nostro artigianato cinematografico: un’opera spettrale e terrorizzante, in cui la civiltà aliena ha prodotto oggetti giganteschi dal sapore quasi pop, la “possessione” degli Estranei trasforma i membri della spedizione spaziale in veri e propri zombie-vampiri (sono tra i primi della storia del cinema, insieme a quelli de L’ultimo uomo della Terra, 1964, di Ubaldo Ragona) e in cui, soprattutto, un intero pianeta è realizzato incredibilmente attraverso lo spostamento e la ripresa attraverso differenti angolazioni e con diversi accorgimenti stilistici della medesima… roccia di polistirolo.
In Alien, evidentemente, il telaio narrativo del modello veniva reimpiegato e adattato al collaudo di un’idea di futuro molto sporca e credibile, in cui ad esempio gli interni, gli oggetti, la tecnologia hanno un aspetto estremamente “usato”, vissuto, assolutamente non patinato. È la stessa idea di futuro che, perfezionata, informa il successivo Blade Runner (1982): l’appartamento di Rick Deckard, lo spazio urbano stratificato e iper-stimolante della Los Angeles del 2019 (così lontana eppure così vicina a come sono e stanno diventando nel frattempo le metropoli globali della realtà), persino la stessa psicologia delle persone, modificata dall’azione del tempo e delle trasformazioni sociali, sono attraversate in profondità da questa proiezione immaginaria, impiantata però su basi estremamente solide.
Non a caso, Blade Runner costituisce una delle aperture fondamentali all’elaborazione del cyberpunk (Neuromancer, il romanzo d’esordio di Wiliam Gibson, viene pubblicato nel 1984, mentre nel 1986 esce Mirrorshades, la leggendaria antologia di racconti curata da Bruce Sterling), forse l’ultima elaborazione complessa e culturalmente articolata, in ordine di tempo, del futuro in letteratura.
Questa letteratura tende, negli ultimi anni, ad avvicinarsi sempre più al presente, come avviene ad esempio nei romanzi che Gibson sta scrivendo da una decina d’anni a questa parte, ambientati in un “presente immaginario” che coincide con un passato recentissimo rispetto alla narrazione (L’accademia dei sogni-Pattern Recognition, 2003, Guerreros-Spook Country, 2007, Zero History, 2010, che insieme compongono la Blue Ant Trilogy), giustificando così la sua scelta narrativa: “Non avevo punti di riferimento, non potevo navigare. Ciò che questi romanzi hanno fatto per me è stato permettermi di costruirmi un ‘indicatore di stranezza’”, ha dichiarato lo stesso Gibson in una recente intervista con Mike Doherty. “E ora, se voglio scrivere qualcosa che sia ambientato nel futuro e che sia rigorosamente immaginato a partire da questo mondo incomprensibilmente strano e complesso come quello in cui viviamo, so di averne preso le misure, in qualche modo, attraverso la narrazione, aprendo semplicemente me stesso a questa stranezza”.
Questa idea di avvicinare il più possibile il futuro al presente nel momento stesso in cui il futuro stesso chiaramente sfugge, e da tempo non è più immaginabile in termini definiti (non è più il “good old-fashioned future”, il futuro all’antica di Bruce Sterling), è uno dei modi possibili – forse uno dei più efficaci – per aggirare la nostalgia, il rimpianto, e il presente perpetuo che di questo rimpianto culturale è il vero motore. Il fantastico, probabilmente, oggi rappresenta una delle piattaforme più efficaci per estrarre da questo presente onnivoro i semi di altri tempi e per produrre ulteriore senso.
Invece, il futuro dipinto da Prometheus – al netto delle meraviglie in 3D e di tutti gli altri artifici disposti con grande e innegabile sapienza – è un futuro, per così dire, “fuori dal tempo” (nonostante sia posizionato esplicitamente nel 2089), ripiegato su se stesso. Nostalgico rispetto ad altre, precedenti idee di futuro. È un futuro scintillante, luccicante ma astorico, sottratto alla linea temporale – e consequenziale – che lo collega a noi.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #10
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