Il museo secondo Gabriella Belli
Definirla l’ex direttrice del Mart sarebbe non solo riduttivo. Perché Gabriella Belli il Mart lo ha concepito, ne ha seguito la gestazione, l’ha fatto nascere e l’o ha cresciuto. Ora è al timone dei Musei Civici di Venezia. Ha quindi un’esperienza profonda e articolata di cosa è e deve essere un museo. Non potevamo dunque che rivolgerci a lei per capire cosa si può fare in un momento di crisi come quello nel quale siamo immersi.
Le collezioni italiane hanno subìto, durante il ventennio fascista, un arresto notevole, da cui è stato difficile risollevarsi. Gli attuali tagli ai budget stanno creando un altro vuoto che sarà complicato colmare per tenersi al passo con gli altri Paesi europei?
Non è esatta questa affermazione, perché in realtà – almeno per quanto riguarda le grandi istituzioni dell’epoca a Venezia, Milano e soprattutto Roma – anche durante il Ventennio ci furono campagne abbastanza organiche per acquistare opere d’arte.
Mi riferivo al fatto che gli acquisti erano molto… orientati.
È logico, naturalmente si comperarono opere d’arte secondo una linea culturale che era in gran parte rappresentata da quello che la Biennale di Venezia portava, perché quello era il centro di acquisizione di tutte queste grandi realtà culturali, a cui si aggiunse poi la Quadriennale di Roma. Non si comperavano certo gli stranieri!
Nessuna frattura dunque?
In realtà, il vero gap a livello pubblico si verifica dopo, alla fine degli Anni Sessanta e negli Anni Settanta. Il Ventennio fu un periodo sicuramente triste, paludato dal punto di vista delle acquisizioni. Ma va detto che, in quegli anni, collezioni come quella di Ca’ Pesaro e della Galleria Nazionale d’Arte Moderna continuarono a ricevere opere. Insomma, durante il fascismo si comperava, si acquisiva, e Bottai fu un ministro dotato anche di una certa sensibilità. E si acquisiva il contemporaneo, mica l’antico o lo storico! Questo per dire che la politica fascista non fu totalmente oscurantista per quanto riguarda l’acquisizione del contemporaneo, di quello che allora era contemporaneo.
Torniamo al gap degli Anni Settanta.
In quel periodo assistiamo a una specie di stop generale nelle acquisizioni destinate alle grandi istituzioni di Venezia, Roma e Milano. Torino è un po’ esente da questa storia, fu una città più fortunata.
E la situazione attuale?
Purtroppo questa spending review, questa situazione pesantissima nell’ambito dei beni culturali ha da anni messo il coperchio all’incremento del patrimonio. C’è stato un piccolo intervento nel periodo di costruzione del Maxxi a Roma con una campagna di acquisizioni, e tuttora il Ministero fa qualche raro acquisto…
Come se ne esce?
La formula del deposito a lungo termine ha aiutato molti musei a istituire una propria collezione in assenza di risorse economiche da investire. La situazione comunque è grave.
Questa gravità influisce sull’“aura” del museo?
Per fortuna, nel mondo, i musei giocano ancora un ruolo molto importante per la valorizzazione dell’arte di tutti i tempi e quindi anche della contemporaneità. Sono molto presenti nel sistema dell’arte. Quello che è andato cancellandosi è la galleria privata, che ha perso molto della sua allure e del suo ruolo, soppiantata in particolare dalle case d’asta. Il sistema ha perso così un anello importante della propria catena, spezzando una continuità che si protraeva dalla seconda metà dell’Ottocento, da quando nasce il collezionismo borghese.
Come si è inserita la casa d’aste in questa catena?
Quello delle case d’asta è un fenomeno piuttosto recente, soprattutto quando si relaziona direttamente con il collezionista. Una volta si limitava a rifornire i dealer.
E sui giovani artisti, come si riflette questa situazione di ristrettezze?
Non potendo incrementare e qualificare la propria collezione, il museo d’arte contemporanea si trova nella situazione di doversi “limitare” a fare attività espositive, mentre il suo ruolo sarebbe anche quello di sostenere la ricerca contemporanea, credere negli artisti, investire culturalmente su di essi, comprarne le opere e inserirle nelle proprie collezioni. In Italia ciò avviene oramai a passo assolutamente ridotto, con conseguenze dirette sul clima creativo e produttivo. Non posso che augurarmi che i nostri artisti abbiano la possibilità di viaggiare e andare all’estero, in Paesi – come la Germania – più vivaci.
C’è quindi una relazione diretta fra crisi economica e crisi creativa?
Questa lunga crisi non è certo un elemento dinamicizzante del mercato artistico. Certo, la creatività funziona da sola, non ha bisogno né di tanti né di pochi soldi: o c’è o non c’è! Quindi si continuerà a produrre arte, ma il problema è che si deve anche comunicarla, e quando i musei devono tirare i remi in barca, quando non hanno risorse per fare attività, per fare laboratori, per fare iniziative… allora l’artista rischia di non avere un interlocutore.
Il rischio è l’isolamento, e quindi l’autoreferenzialità…
Non possiamo aspettare che l’artista muoia! Dobbiamo metterci in ascolto adesso di ciò che gli artisti ci dicono, e il museo deve poter trattenere queste voci.
Il privato può rappresentare un’àncora di salvataggio?
Io credo moltissimo nella funzione del pubblico. La società civile deve essere l’attore principale della propria cultura e quindi tenere nelle proprie mani le redini di tutto il sistema culturale pubblico. Non sono per la privatizzazione dei musei soltanto perché, così facendo, possono entrare delle risorse. Credo che ogni società civile debba esprimere in maniera democratica, equilibrata, armonica la propria cultura, e solo il pubblico può in qualche modo garantire l’equidistanza, perché non ha come fine ultimo il profitto.
Quindi chiusura completa?
Il problema è sempre quello delle regole: bisogna averne di buone. Il rapporto fra pubblico e privato sarà sicuramente importante negli anni a venire nel nostro Paese, ma le regole sono fondamentali per costruire una collaborazione virtuosa. Buone regole, buona collaborazione; cattive regole, e non sappiamo dove andremo a finire!
Quando si parla di privati, si arriva sempre alla questione fiscale: da noi non conviene mica donare, si pagano troppe tasse!
I privati che vogliono sostenere la cultura devono viaggiare in un regime di fiscalità agevolata: lo penso, l’ho detto e lo ribadisco! Sono convinta che, anche se il privato che investe nel pubblico gode di agevolazioni fiscali, queste ultime non saranno mai in numero tanto rilevante da costituire una perdita per lo Stato. In secondo luogo, laddove il privato investe in cultura, si tratta di una collaborazione importante che supporta le risorse ridotte dello Stato. C’è un unico pericolo: poiché il patrimonio è pubblico per definizione e per sostanza, l’accesso del privato non deve comportare la deresponsabilizzazione dello Stato nei confronti del patrimonio stesso. È qui che bisogna vigilare! Sappiamo tutti che la cultura produce economia, ma lo Stato non deve abdicare mai alla salvaguardia del proprio patrimonio, della propria cultura, della propria identità.
In questo scenario economicamente difficile, come si pone il problema della conservazione dell’arte contemporanea?
Non abbiamo più tempo da perdere! Anche in Italia è assolutamente necessario che ci si specializzi. Da questo punto di vista c’è ancora molto da fare. Credo che la metodica, sia dal punto di vista scientifico che da quello della conservazione, debba essere uguale per l’antico, il moderno e il contemporaneo. Gli strumenti e le soluzioni saranno diversi, ma per il resto vorrei pensare che esiste una totale continuità nel valore dell’arte. Quella contemporanea ci pone domande più difficili e noi dobbiamo attrezzarci velocemente per costruire laboratori in grado di affrontare tutto il problema della conservazione. In merito sarebbe interessante una joint venture tra i musei d’arte contemporanea al fine di fondare un laboratorio che sia l’equivalente, ad esempio, dell’Opificio delle Pietre Dure, magari sotto la supervisione del Ministero o dell’Amaci. Centralizzare saperi e talenti potrebbe essere molto utile.
Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #11
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