Dibattito in rete: photoshop uccide la verità della fotografia? Polemiche sul World Press Photo. Ne riparliamo, partendo dai vostri commenti su Facebook
Della serie “dibattiti sul web”. Anzi, sui social network, sempre più la piazza principale in cui si consuma – superficialmente? Intelligentemente? – lo scontro e l’incontro tra cittadini, internauti, opinionisti, esperti, profani, uomini noti e uomini qualunque. Accade di continuo anche ad Artribune, soprattutto sulla nostra pagina facebook, estensione articolata e indipendente del giornale. Un […]
Della serie “dibattiti sul web”. Anzi, sui social network, sempre più la piazza principale in cui si consuma – superficialmente? Intelligentemente? – lo scontro e l’incontro tra cittadini, internauti, opinionisti, esperti, profani, uomini noti e uomini qualunque. Accade di continuo anche ad Artribune, soprattutto sulla nostra pagina facebook, estensione articolata e indipendente del giornale. Un luogo di conversazione, leggerezza, approfondimento, informazione, curiosità.
Ed è successo anche pochi giorni fa, quando abbiamo ri-postato la foto Paul Hansen, vincitore del prestigioso premio di foto-giornalismo World Press Photo 2013. L’avete vista tutti: uno scatto drammatico, crudo, che immortala per le strade di Gaza il funerale di due bambini, colpiti a morte durante un attacco missilistico israeliano. Immagine shock. Che però non ha mancato di scatenare polemiche in rete. Al fotografo svedese si è infatti rimproverato di aver fatto un uso eccessivo di photoshop, tramutando la testimonianza di un reportage in una roba plastificata, finta, troppo scenografica. Senza più quella patina autentica, sporca, rumorosa e feroce che certe immagini hanno o dovrebbero avere.
La solita diatriba tra conservatori e progressisti? Tra puristi del mezzo fotografico e sacerdoti delle più avanzate tecnologie? Noi abbiamo rilanciato su Facebook il dibattito. E si è scatenata un’accesa discussione. Tema che intriga: il fotografo che lavora troppo di post-produzione ci è o ci fa? Così, mentre alcuni si schierano dalla parte dei polemisti e dei tradizionalisti – “È la fiction che vince sulla realtà”, “È talmente plastificata che gli effetti ottenuti in post produzione superano l’orrore del momento”, “Supertaroccata, dico: no”), altri arrivano ad appellarsi al tema dell’etica. Sara Piersantelli, per esempio: “Mi sembra poco rispettosa dei due bambini diventati bambole e non più corpi che gridano vendetta”. Addirittura
Di contro, ci sono coloro che, invece, davanti a un uso un po’ troppo zelante di calibrature cromatiche, livelli luminosi, tagli, saturazioni e filtri, non si scompongono più di tanto. Tutto normale, dicono: siamo nel 2013. Serena Marigliano commenta così: “Ma suvvia. L’immagine è forte a prescindere da qualche aggiustamento fatto. Questo continuo demonizzare Ps non lo capisco. Si tratta di saturazione e sistemazione luci: quando ps si usa per cambiarsi i connotati va bene e in questo caso no? Il messaggio è rimasto tale e quale e non è stato né modificato né taroccato”. Si unisce al coro Friedrich Blue: “Viviamo in un tempo dove le tecnologie ci permettono di alterare, migliorare, potenziare quello che in questo caso fa la macchina fotografica. Il processo è in mano all’artista e credo sia liberissimo di scegliere quello che reputa più appropriato… Si possono esprimere dei giudizi sul risultato finale e su cosa l’opera trasmette, ma non sul processo”.
Della stessa idea Michele Miele, secondo cui “Le correzioni di tonalità e contrasto sono, semplicemente, un’ulteriore fase del linguaggio fotografico e ne fanno parte dall’alba dei tempi. Prima in camera oscura con la chimica, adesso lo si fa al computer attraverso il digitale”. Cambiano i tempi e gli strumenti, ma non l’essenza dei procedimento e dell’approccio creativo. A dare man forte c’è Giacomo Falcone, che sentenzia “Non capisco da cosa nasce lo scandalo. La fotografia in Bianco e Nero è la madre di tutte le falsificazioni, dato che non esiste un mondo in bianco e nero”. Arguta affermazione, a cui segue quella di Carlo Fei: “Tutta la fotografia è sempre stata taroccata. Pensate al famoso scatto di Capa e del miliziano che cade”. Taroccata anche quella?!
Tra i puristi, con tanto di coté etico, c’è anche Eva De Crescenzo, che torna sul tema spettacolarizzazione, sollevando un dubbio: non è che per caso a monte c’era il timore di non “impressionare abbastanza lo spettatore”? Ecco allora il ricorso al digitale, per potenziare l’effetto drammatico, teatrale: “Ormai i nostri occhi sono “abituati” a tutto ciò, dunque l’espressività del contenuto non basta, si ricerca la perfezione patinata. A me (spettatore) è questo che trasmette un certo sconforto”.
E da qui arriva la domanda delle domande: la fiction, per toccare i cuori e le corde dell’emotività, deve superare la realtà? L’orrore, raccontato dai media senza più pudore alcuno, ci ha conquistati, penetrati, accecati e, infine, anestetizzati. E la tecnologia, che fa? Estremizzando il reale, assume forse una funzione di amplificazione del pathos: simulacri più potenti del vero. Eppure, in molti osservatori, quel sapore di plastica innesca altre nostalgie, apre nuovi vuoti: tutti alla ricerca dell’aura che fu. Che cosa significa, allora, la parola “verità”, nel dibattito sull’arte, l’immagine e l’estetica, agli inizi del terzo millennio? Una parola che diversi anni fa sapeva di muffa e che oggi torna a sedurre, suggerendo riflessioni…
– Helga Marsala
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