Sei libere associazioni di Tino Sehgal
Si è chiuso con Tino Sehgal il ciclo delle Unilever Series alla Turbine Hall della Tate Modern. Un lavoro, un’esperienza, una performance, una coreografia che lasciano senza fiato. Anzi, è forse esatto il contrario: perché in “These Associations” la parola e il dialogo sono fondamentali. A Londra, nei mesi scorsi, siamo andati più volte alla Tate e abbiamo parlato con molti performer. Ecco sei storie
These Associations è l’edizione 2012 delle Unilever Series della Tate Modern, assegnata a Tino Sehgal. Definito “il progetto più complesso, difficile e pericoloso che la Tate abbia mai ospitato”, These Associations è un fare arte che non si presenta come arte, o che almeno non appare come tale. È, forse, arte come performance, non come produzione di un oggetto da guardare. Anziché osservare sculture, installazioni, dipinti, qui c’è gente vera con cui bisogna interagire, e la fruizione dell’opera non è canonica, stereotipata e univoca, dallo spettatore all’oggetto, come quasi sempre avviene. È arte da “fare” insieme, è arte che “si sente”, è immateriale e per questo non in vendita: non si “consuma” acquistandola.
La Turbune Hall della Tate è un luogo dove già normalmente si guarda e si è guardati, poiché la si attraversa oppure la si osserva affacciandosi dalle terrazze ai livelli superiori. L’opera di Sehgal utilizza il meccanismo naturale che lì si svolge ogni giorno per costruire le sue sceno-coreografie, sulla base di coppie oppositive come massa/individuo, luce/ombra, silenzio/suono, azione-movimento/immobilità, aggregazione/disgregazione.
Tutto si svolge sulla base di incontri dal vivo tra le persone (performers e visitatori) in una forma di socializzazione reale, basata sulla conversazione spontanea, filosofica ed esistenziale. I momenti di conversazione sono unici, veri. Le storie che si raccontano sono personali e rispondono a una serie di domande-chiave poste da Sehgal ai partecipanti/artisti. Solitamente in una performance si capisce subito chi è l’artista/attore; qui invece non è così immediato, e non deve esserlo. These Associations ha a che fare con le maschere che portiamo: le strappa, e loro cadono nell’incantesimo di un attimo. Nell’incontro c’è un momento in cui ci scopriamo. È accaduto. Documentato. Lo sforzo personale di ognuno, da entrambe le parti, consiste nel superare le proprie barriere e mettersi in gioco.
L’artista osserva, vede e guarda lo spettatore (colui che nello stesso momento fruisce, osserva e guarda l’arte) e funge da specchio: per forza devono cadere le maschere.
These Associations è pari a these conversations: scambi inediti, unici, personali, ma soprattutto buone conversazioni.
Sehgal dichiara che la cosa più importante è sentirsi “engaged at the end of the day”, coinvolti e pieni dell’esperienza vissuta. Ed è certo che in These Associations capitano cose che toccano in profondità. Molte sono arte-fatte ad hoc per il progetto, ma dall’incontro in poi tutto è spontaneo e reale. La situazione è artificiale ma le interazioni che si creano nascono da spinte personali dirette, dovute al momento. Le connessioni non hanno un obiettivo preciso, la conversazione parte sì da un racconto che l’artista decide di fare alla persona prescelta, ma poi si vaga insieme nella conversazione, che non si sa dove porta e che per questo è unica e originale, mai uguale a un’altra. Nello scambio è inevitabile che si “senta” l’altro e si realizzi una forma di conoscenza più profonda, anche se impalpabile.
Sehgal sottolinea che il significato del titolo è molteplice: pubblico e partecipanti si confondono (si associano) facendo le medesime cose. Più che una scrittura/sceneggiatura, l’opera esprime un re-focus sul valore delle persone, sul bisogno umano di collegarsi agli altri, attraverso individui coinvolti da e nell’arte. These Associations è un progetto sulla comunicazione, in particolare sulla “open communication”. La costruzione artistica sta tutta nel creare le condizioni adatte per le interazioni spontanee, non già nel definire il copione degli artisti. Come lo stesso Sehgal ha detto, “c’è arte – e ricerca – quando si spiazzano le attese, quando si crea qualcosa di diverso da quello che in ogni epoca ci si aspetta dall’arte. L’arte deve creare dis-connessioni e la risorsa inesauribile per questo è solo l’uomo con la sua immaginazione”.
L’opera è durata tre mesi. Il gruppo di 80 persone è stato selezionato e preparato nell’arco di un anno. I turni si svolgevano ogni quattro ore per un totale di 1.120 ripetizioni. Gli attori/artisti sono stati selezionati fra la gente comune, senza nessuna esperienza artistica pregressa.
In These Associations l’esperienza diretta è imprevedibile: esilarante, tragico-commovente o rilassante. Le conversazioni possono durare ore o pochi minuti. Ogni volta è diverso, con ogni persona è differente, e non si riesce a intuirlo prima. Qui ve ne raccontiamo sei, vissute in prima persona.
L’ARANCIA, LA RETTA VIA E IL SENSO – NON RETTILINEO – DEL TEMPO E DELLO SPAZIO
Anne racconta di quando era a un picnic in famiglia da piccola e voleva allontanarsi più in là per giocare a palla. Suo padre le raccomandò di seguire la strada giusta per raggiungere il campo e di comportarsi nel modo giusto con la sua squadra. Lei fu colpita dall’idea della “retta via” e non capiva perché avrebbe dovuto camminare in rettilineo, lì in campagna non era possibile. Allora suo padre le mostrò un’arancia, ci disegnò su un percorso da seguire con una rotellina. Per seguire quel percorso la rotellina doveva “piegare” lungo la sfericità della arancia per “restare sull’arancia”, al contrario sarebbe caduta. Seguire la strada giusta significava dunque anche “piegare” laddove le circostanze lo rendessero necessario, seguire anche percorsi irregolari che però erano giusti per la particolare conformazione delle circostanze, per restare sull’arancia, per restare sulla terra. Anni dopo, da adulta, Anne, australiana, intrattiene una conversazione in aereo, in viaggio per Londra. Il suo vicino lamenta gli effetti del jet lag, di come in volo si attraversassero la notte e il giorno in maniera innaturale, di come fosse affascinante ma anche non congeniale alla nostra percezione del tempo. Ad Anne torna in mente l’arancia, di quanto sia necessario “mantenersi in curva” per restarci sopra, anche in volo e in uno spazio-tempo “irregolare”, per connettere in maniera “rettilinea” punti lontani del globo (e della mente).
IL CARATTERE CHIUSO DEGLI INGLESI
La conversazione di John è inarrestabile. Dal suo racconto capisco perché. Dice che a 18 anni vince una borsa di studio per l’estero e il suo programma di scambio prevede un anno in Kansas. Dal Devon in Kansas. Parla di un’accoglienza che spiazza ogni sua aspettativa, dalle celebrazioni di benvenuto al suo arrivo, agli inviti a casa e alle feste che gli fanno continuamente i suoi compagni di classe, alle curiosità che gli avanzano tutti per sapere di lui, della sua vita, di come si vive in Devon, della sua famiglia. Lui è stordito, felice e incapace di capire perché tutti si interessano a lui. In tanti anni trascorsi nella sua scuola in Devon non era mai successo qualcosa del genere, lì ognuno pensa a sé, ognuno svolge la sua vita e la sua educazione anglosassone prevede che “interessarsi” alla vita di qualcuno sia invadente e maleducato, assolutamente sconveniente. In Kansas per John si apre un mondo nuovo, torna in Inghilterra completamente trasformato, ama parlare, chiacchierare, confidarsi e condividere, ma sa che non sarà mai bello come è stato in quel fantastico anno di studi in Kansas. Vive ancora in Devon e all’età di 56 anni si ritiene “disadattato” rispetto alle regole sociali che da buon inglese deve ancora rispettare, ma è orgoglioso di precisare che i suoi migliori amici sono tutti d’oltremanica.
GRAHAM E LA MALATTIA
Incontro John per una seconda volta, ovviamente per caso, nel turbinio della Turbine Hall. Questa volta mi racconta di Graham, il suo vicino di casa. E la storia ha molto a che fare con la sua svolta “esistenziale” del Kansas, di cui mi aveva parlato la prima volta, due mesi prima (lui non poteva ricordare di avermi parlato del Kansas). Dice che soffre dell’indifferenza glaciale – e formale – con cui gli inglesi gestiscono i rapporti di vicinato, di “amicizia” o di semplice conoscenza. Lui non lo sopporta. Ma c’è un suo vicino, con moglie e quattro figli, che non fa che invitarlo a casa per cene, barbecue, tea time o solo per fare una chiacchiera. A lui piace molto e ricambia, ma non si spiega come il suo dirimpettaio, inglese da generazioni, possa avere un comportamento così “anomalo” in terra britannica, eppure così sincero. Passano due anni e Graham diventa il suo migliore amico, le famiglie condividono molto tempo insieme, Graham è persona splendida e John riesce a rilassarsi con lui nell’intimità di un’amicizia insolita per la cultura britannica. Una mattina John si sveglia e dalla finestra vede strani movimenti davanti casa di Graham, poi il cancello listato a lutto. Graham era morto: aveva un tumore al cervello e lo sapeva già da tre anni, esattamente da quando avevano cominciato a essere amici. Da quando cioè Graham aveva mostrato a John quanto fosse semplice aprirsi, comunicare, stare insieme, anche con persone sconosciute, e condividerci il tempo, solo per il piacere di farlo. Le conversazioni con John sono lunghe (parla sempre lui), ti invita a sederti a terra per parlare, e poi vuole sapere di te, è assetato di umanità, vuole recuperare a tutti i costi il vuoto emozionale della sua “inglesità”.
ROSANE E IL SUICIDIO DELLA MADRE
Rosane ha 18 anni, capelli lunghi occhi grandi, bui, che ti guardano dritto dentro. “Avevo otto anni quando mio padre venne a prendermi all’uscita da scuola e, lungo il tragitto verso casa in macchina, mi dice che mia madre si era suicidata, impiccata, in bagno”. Ok, la fermo, la ringrazio dell’approccio, ma le chiedo di non continuare perché non condivido l’uso di certi argomenti per una performance d’arte. Va bene tutto, ma non accetto che ti inventi l’impiccagione di tua madre per sorprendermi. Non è necessario.
Lei rimane zitta a guardarmi, seria. Faccio per salutarla e allontanarmi.
– Non sto mentendo. È la verità.
– Non ti credo. Non mi piace che giochi con i sentimenti. Raccontane un’altra.
– È la storia della mia vita, non ne ho altre e questa mi pesa abbastanza. La vista di mia madre morta fu come entrare in un’anestesia totale lunga cinque anni, di quel periodo non ricordo nulla. A tredici anni andai ai funerali della madre di un mio compagno di scuola. Ebbi un risveglio violento, piansi ininterrottamente per giorni e nessuno si spiegava perché tanto trasporto per una persona estranea. Organizzai le mie cose e andai via di casa, da allora non vedo mio padre, non voglio incontrarlo, lui sa dove sono, ci sentiamo per il necessario. Vivo con amici a Bloomsbury.
Le chiedo come fa a vivere, se ha continuato la scuola, se c’è qualcuno a cui vuole bene.
– Ci pensa mio padre, ma non voglio vederlo. Non c’è nessuno a cui voglio bene, i miei compagni di casa sono la mia famiglia, ma so che in fondo non siamo legati e ognuno pensa per sé.
Rosane non ha mai staccato lo sguardo, mi ha puntato fisso da quando ha cominciato a parlare, praticamente mi ha immobilizzata. Scivolo in questa storia, come se non potessi fare altrimenti.
– Ormai sei grande, devi cercare tuo padre. Devi rompere il guscio in cui ti sei cacciata. Anche lui ha sofferto come te, ha bisogno di te, e tu di lui.
Ha gli occhi umidi, e due lacrime pronte e cadere.
– Dici sul serio?
Approfitto per chiederle come si chiama, dove è avvenuto tutto ciò. Possibile che nessuno si sia interessato a lei, all’assurdità della sua scelta di tagliare con tutto? So che per le regole di These Associations gli “artisti” non possono dire particolari personali che permettano di rintracciarli all’esterno, fuori dalla performance. È regola tassativa. E lei come previsto si rifiuta. Ho un groppo alla gola, la vista appannata, lacrimo anch’io.
– Vedi? Mi stai raccontando una fantasia: se non riesci a dirmi come ti chiami è falso anche tutto quello che mi hai detto finora.
Rosane ha il volto rigato da quelle due lacrime e altre ancora. Una faccia delusa. Si gira, fa per andarsene, senza un cenno di saluto (come invece tutti gli altri fanno – da copione – anche solo con un sorriso). Rimango a guardarla, il cuore che mi batte a mille, non so che fare, solo rabbia per trovarmi lì in una situazione così assurda. Sto per raccogliere le mie cose da terra, e con la coda dell’occhio la vedo tornare. Mi prende per un braccio, ora piange davvero e piango anch’io. Gli occhi bui mi ipnotizzano.
– Qui non posso parlare, ma fuori sì. Mi chiamo Rosane. Vediamoci fuori. Aiutami a capire. Mia madre oggi avrebbe avuto la tua età.
Restiamo a guardarci, Rosane è implorante, non aggiunge altro. I pensieri mi si aggrovigliano, come fare, cosa fare, come incontrarla, cosa dirle. Non mi sento all’altezza di tanta responsabilità. Oppure sì. Eccome.
Nel programma di These Associations c’è un momento in cui tutto deve “rifluire” e gli attori/artisti devono riunirsi in performance comuni: dal canto al mantra, alla corsa, al fermarsi immobili nel buio (ne trovate un buon esempio sul profiloYouTube di Artribune, ndr). Si stanno abbassando le luci, il tempo stringe e dovrei sbrigarmi a dare i miei recapiti a Rosane, rassicurarla che per lei ci sono. Lenta come sempre e anche un po’ codarda negli affari di cuore, perdo l’attimo, Rosane si allontana. I suoi occhi bui mi raggiungono da lontano, la faccia delusa che mi accusa, è una spina che non riesco più a togliere.
LA LAVATRICE DURANTE LE OLIMPIADI
La signora di mezza età si introduce nella conversazione tra me e un sorvegliante della Tate, come se ci fossimo conosciute da sempre. “Stamattina ho attivato quattro lavatrici prima di venire qui e ho dovuto svegliarmi anche presto, ogni lavaggio dura 40 minuti. È da dieci giorni che usciamo tutti insieme di casa al mattino: mio marito al lavoro, io qui alla Tate e i ragazzi al parco olimpico. Riportano a casa tute e magliette sudate che non riesco a smaltire ogni giorno, e così ci sono giornate tutte dedicate alla lavatrice. Ricorderò le Olimpiadi per tutte le lavatrici che ho fatto, non è fantastico?”.
LEI CHE ODIAVA SEDERSI IN TRENO VICINO ALLE PERSONE
È una ragazza “dell’est” molto giovane e anche timida. Mi spiega che non ama trovarsi tra la folla, né socializzare in treno, al bar o nell’autobus (cerca sempre di sedersi lontano da tutti); e poi ha problemi con la lingua e non crede che ci si possa dire granché con persone che si conoscono per pochi minuti. Nel treno per Gatwick, invece, una signora l’ha avvicinata per chiederle del libro che stava leggendo, e lei ha preso a parlare senza riuscire a fermarsi. Ha chiesto alla signora di sedersi accanto a lei e di raccontarle dell’ultimo libro che avesse letto. Adesso sono amiche e frequentano insieme i reading day al National Theatre. Le chiedo se ha trovato amici anche qui in These Associations. Lei annuisce rapida, come una bambina a cui si chiede se vuole un altro po’ di Nutella: “Sì, tanti!”.
UN WEEKEND IN CORNOVAGLIA CON LE FIGLIE
È una donna piccina di età indefinibile, mi racconta che ha tre figlie, grandi, dai 15 ai 21 anni e che decidono di passare un fine settimana insieme in Cornovaglia. Cerca di convincermi che la Cornovaglia è un posto magico (non me la bevo, ma andiamo oltre). Dice che per la prima volta, da madre, ha osservato il carattere totalmente diverso delle sue figlie in un unico momento condiviso. Sebbene le conoscesse profondamente, non le era le era mai capitato, nel tempo di due ore (quanto era necessario per percorrere quel sentiero sulla scogliera), di riuscire a cogliere i tre ritratti delle sue figlie che rispondevano ognuna a proprio modo alla sollecitazione comune della bellezza di quel paesaggio naturale.
La più grande si guardava intorno estasiata, descriveva il colore del cielo, trovava metafore per gli scorci sul mare e per l’infrangersi delle onde sulle rocce. La mediana si era appassionata al passaggio degli uccelli, guardava solo quelli. Riusciva a distinguerne il verso, ci trovava il ritmo e i suoni di una composizione musicale. La più piccola non aveva mai tolto le cuffie collegate al suo iPhone e aveva guardato a terra per tutta la passeggiata, aveva tenuto su il cappuccio della felpa per tutto il tragitto e a volte si fermava per scrivere messaggi agli amici su Facebook o Twitter. Era stata l’unica a proporre di tornare a casa il sabato anziché la domenica.
LE 9 PM NEL REGNO UNITO SONO LE 21 IN EUROPA
Si avvicina per chiedermi se mi fosse mai capitato di perdere un treno o un aereo. Mi coglie sul debole: troppe volte. Lei racconta di aver perso l’Eurostar da Parigi per Londra per aver letto l’orario di partenza “all’inglese” confondendo le 9 del mattino con le 9 pm. Insomma, si è presentata in stazione a sera, mentre il suo treno era partito da ben dodici ore. Ne parlava come di un’esperienza sconvolgente, dovuta al vissuto di convenzioni sociali male interpretate. Per lei aveva avuto un effetto “sliding doors”: una serata in più a Parigi, una cena romantica e… un conto in più da pagare al ristorante e all’hotel.
Emilia Antonia De Vivo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #11
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