Arte e accumulo digitale
Un po' avanguardia senza manifesti, un po' scoperta dell'acqua calda. La New Aesthetic ci racconta cosa vedono le macchine, e nella blogsfera si scatena il dibattito. È una nuova corrente o solo una buzz word? Ai posteri l’ardua sentenza. Noi intanto ve la raccontiamo.
All’inizio era un blog. Un mastodontico assortimento di immagini raccolte dal designer londinese James Bridle sul suo tumblr intitolato The New Aesthetic. Una ricerca sulla produzione estetica contemporanea sempre più infarcita di digitale: glitch, pattern, pixel, 8 bit graphic, data visualisation, robot vision, gif animate, data mash. Ma anche immagini satellitari, mappe, tweet, scarpe che sembrano immagini a bassa risoluzione, sculture di finti pixel, il nascondiglio di Osama Bin Laden su Google Maps. La tesi proposta è quella di un rapporto uomo-macchina sempre più empatico e segnato da reciprocità, tanto da far progressivamente assomigliare il nostro immaginario al modo di vedere degli apparati digitali.
Poi c’e’ stato SXSW, festival texano dedicato ad arti & tecnologie emergenti, con una conferenza organizzata da Bridle per fare il punto su quella che definisce un’irruzione del network nello spazio fisico, evidenziando come la datatissima separazione tra reale e virtuale sia ormi priva di senso, mentre tutto esiste in un miscuglio senza barriere di codice e materia. Alla tavola rotonda hanno preso parte Joanne McNeil di Rhizome, che ha cercato di inserire il fenomeno in un percorso storico, Ben Terrett, che ne ha rintracciato le influenze sul panorama commerciale, Aaron Straup Cope e Russell Davies.
Ma la “consacrazione” è arrivata poco dopo, con il saggio di Bruce Sterling uscito su Wired ad aprile, che accoglie la New Aesthetic con deciso entusiasmo e qualche critica costruttiva. Sterling parla di tempi eroici, di qualcosa di veramente nuovo che va preso sul serio. Le immagini messe insieme da Bridle sono un insieme disorganico e incoerente, è vero, ma ciò che emerge è un ambiente di produzione e circolazione creativa virale, aperta al crowdsourcing, a infinite manipolazioni e a interventi amatoriali.
Le critiche di Sterling sono rivolte soprattutto alla questione dell’antropomorfizzazione delle macchine. La sconfitta dell’intelligenza artificiale è per lui definitiva; l’estetica è una questione metafisica, e quindi umana, le macchine sono prive di giudizio e, perdendo di vista questo punto fermo, la “Nuova Estetica” non può quindi ambire al ruolo che il suo nome le impone. In sintesi, lo spunto è buono ma occorre un ulteriore sforzo di analisi per colmare la totale assenza di rigore teoretico.
Del resto in molti si sono posti la questione di cosa ci sia di nuovo nel riconoscere come la produzione creativa odierna sia influenzata dalla tecnologia. Cosa differenzia un movimento artistico dalla pura constatazione di un fenomeno? Nell’era di Pinterest, Instagram, Tumblr, in cui dimostrare creatività è d’obbligo, è legittimo chiedersi se un’avanguardia debba per forza essere argomentativa e proporre nuovi valori. O forse può manifestarsi come un sistema, una grammatica visiva e un contesto produttivo? Inoltre, come ha fatto notare Marius Watz, l’attributo ‘new’ è piuttosto problematico: la tecnocultura è qui con noi da un bel pezzo, in un certo senso la New Aesthetic arriva in ritardo, senza contare come nella congerie di materiale eterogeneo raccolto sotto la sua etichetta ci siano le non certo nuove immagini satellitari, visioni aeree e nostalgie 8bit. L’unica cosa davvero recente, secondo Watz, è l’integrazione totale e massiccia del digitale nel quotidiano.
Sull’argomento si è pronunciato anche Ian Bogost in risposta all’intervento di Greg Borenstein, che interpretava la nuova corrente nell’ambito di quell’indirizzo recente della ricerca filosofica che va sotto il nome di Object Oriented Onthology. Per la OOO tutto esiste sullo stesso piano, “aeroporti, granelli di sabbia, koala, il clima…”; il punto di vista umano e la sua relazione al mondo perdono centralità, in favore di una speculazione sull’esperienza e le relazioni di qualunque altro oggetto. In questa prospettiva, la definizione che Borenstein offriva della New Aesthetic è quella di un insieme di “artefatti visivi che creiamo per immaginare le vite interiori dei nostri oggetti digitali e la rappresentazione visiva da essi prodotta”. Per Bogost però non basta: il rapporto uomo-macchina costituisce soltanto una fetta infinitesimale dello spettro d’azione, o meglio di speculazione, della OOO. Insomma, la New Aesthetic è ancora troppo umana.
Che sia poco più di un meme o l’indicatore di un orientamento ad ampio raggio, che Bridle sia un guru o un abile trendspotter, ciò che non va dimenticato è come la New Aesthetic abbia scatenato un dibattito acceso e rinvigorito la riflessione sulla cultura contemporanea e sulle sue forme di produzione sempre più de-istituzionalizzate. Fornendo lo spunto, ad esempio, al book sprint organizzato da Michelle Kasprzak curatrice del centro di new media art olandese V2, in cui si affronta anche la questione dal punto di vista della proprietà intellettuale e della pratica curatoriale online: fino a che punto un blog funziona come spazio espositivo e una sequenza come strategia curatoriale? Più prudente, in fin dei conti, è considerare la New Aesthetic come una sensibilità diffusa, senza dimenticare che dare un nome alle cose è già un esercizio critico che contribuisce al processo di storicizzazione. Come riconosce Bridle stesso: “Se dai il nome a qualcosa, è in tuo potere, ma si tratta di un potere condiviso da tutti. Gli altri possono prendere il tuo strumento e utilizzarlo”.
Gabriella Arrigoni
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #10
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