Milano Updates: con la mia foto feci piangere Robert De Niro. All’Affordable Art Fair un caffè collettivo con Maurizio Galimberti, che racconta la sua vita e le sue Polaroid
Forse non tutte le persone che di primo mattino sono in fila per accedere all’ultimo giorno di fiera avranno potuto assistere all’Arte a colazione proposta oggi da AAF, nell’area Lounge. Ma tant’è: caffè, succo d’arancia, tè e biscotti sono presenti, così come Maurizio Galimberti (Como, 1956). Il tema dell’intervista che lo vede protagonista (insieme alla […]
Forse non tutte le persone che di primo mattino sono in fila per accedere all’ultimo giorno di fiera avranno potuto assistere all’Arte a colazione proposta oggi da AAF, nell’area Lounge. Ma tant’è: caffè, succo d’arancia, tè e biscotti sono presenti, così come Maurizio Galimberti (Como, 1956). Il tema dell’intervista che lo vede protagonista (insieme alla figlia Valentina, in teoria, in pratica è rimasta allo stand di Dada East, la sua galleria) è Come fare della polaroid un’arte, e non poteva essere che questo. Nina Stricker e Nicola Zanella, in vestaglia a quadri, pongono qualche domanda al fotografo comasco, celebre proprio per le sue composizioni realizzate con Polaroid. La conversazione è introdotta dal direttore Marco Trevisan, che ne approfitta per un caffè.
E poi via, Galimberti ha l’occasione di raccontare aneddoti sulla sua vita, partendo dagli inizi come fotografo. Una formazione da geometra e il lavoro nei cantieri non gli hanno reso troppo difficili le cose, anzi sono stati un’esperienza per sviluppare la capacità di osservare e di affinare il proprio punto di vista, cosa che – sostiene – non avrebbe mai potuto fare chiuso dentro un ufficio, che un po’ come le classi a scuola ghettizza. Quando iniziò ad appassionarsi alla fotografia scattava con una Canon. Più avanti Galimberti e un gruppo di amici ebbero un posto da trasformare in camera oscura, ma a un certo punto si rese conto di essere allergico agli acidi. E da allora Polaroid fu. Per non parlare di incontri con personaggi straordinari: le pacche sulle spalle di Bruno Munari, che lo consigliava in dialetto milanese; il pianto di Robert De Niro davanti al suo ritratto fotografico, dentro al quale vedeva i propri genitori molisani, tutta la sua vita; incontrando Mario Giacomelli, che Galimberti considera forse il miglior fotografo italiano, apprese che entrambi possedevano una macchina fotografica tenuta insieme dal nastro adesivo. Dice, inoltre: “Sono conosciuto di più dal pubblico grazie ai ritratti, e ho scoperto che c’è molta gente che ama farsi ritrarre. I più belli da ritrarre sono forse i registi, che amano la fotografia. Ho fotografato Wenders, Monicelli, Herzog, che sosteneva che le sue mani, con le quali aveva lavorato il ferro, avessero costruito la sua vita”.
Insomma, prima di salutare la figlia e andare a prendere un aereo, a lungo Galimberti narra di quella strega della fotografia (proprio così, che anche quando è in vacanza, per dire, un fotografo non può fare a meno di fotografare) e accetta, per una volta, di scattare con una mostruosa reflex i suoi intervistatori…
– Lucia Grassiccia
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati