A me non piace il giallo
Premetto, a me non piace il giallo, non il colore giallo del sole e di van Gogh, quello lo adoro, non parlo neanche di quello che indica i popoli dell’Estremo Oriente, e non mi riferisco neppure agli artisti che usano il giallo come genere, come Douglas Gordon e i suoi video ispirati ai film di Hitchcock…
Non è che odi il giallo, ma mi è abbastanza indifferente e a questo preferisco il western. Non mi piace il giallo letterario, cinematografico, televisivo ecc. e odio ancor più quelli mi dicono: “Sto leggendo un bellissimo libro giallo, oppure ho visto un bellissimo film di Dario Argento, ma non ti dico come va a finire, altrimenti perdi tutta la sorpresa”. Difatti, a me del giallo non piace la suspense, non mi piace aspettare fino alla fine per sapere come va a finire, non mi piace arrovellarmi tutto il tempo della lettura, o della visione, cercando di capire, intuire, indovinare come va a finire e dire: “Visto, lo sapevo. Ci azzecco sempre”.
Per questo vi rivelo subito l’argomento e il finale di questo articolo: il fumetto, o meglio la relazione fra arte e fumetto, o meglio ancora se il fumetto è arte e vi dico che io penso che lo sia.
Insomma, alla domanda: Carmelo Bene è un artista o un regista, un drammaturgo, un attore?
Moebius e Andrea Pazienza sono disegnatori di fumetti o artisti? Cosa rispondereste? Io la risposta ce l’ho: per me sono artisti e mi pace parlare del fumetto e del lavoro di alcuni artisti che hanno scelto di esprimersi con esso, invece che con la pittura, la scultura, il video, l’installazione ecc. Va aggiunto che, nel caso degli artisti disegnatori e scrittori di fumetti, la relazione maggiore è quella istituita sia con le arti visive vere e proprie che con la letteratura.
Uno dei motivi che mi spinge, o rispinge a occuparmi di tale questione – a cui avevo dato un contributo inserendo una decina di artisti del fumetto nella mostra Il Grande Gioco. Forme d’arte in Italia 1947-1989 -, è il fatto che il 2013 è il trentennale di Valvoline (Daniele Brolli, Giorgio Carpinteri, Igort, Marcello Jori, Lorenzo Mattotti), il gruppo che, qualche anno dopo la nascita di Frigidaire (1980), aprì una nuova via del fumetto con l’intenzione di fare arte.
Sicuramente tale ricorrenza sarà motivo di riapertura del dibattito sulla questione arte/fumetto. A tale proposito va segnalato che il 2012 è stato un anno in cui importanti istituzioni hanno dedicato significative esposizioni ad alcuni protagonisti di questa forma d’arte: ad esempio, abbiamo visto Art Spiegelman al Centre Pompidou e Robert Crumb al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, oppure Igort alla Triennale di Milano, and so on. In realtà possiamo ben dire che i tre artisti succitati sono tra i maggiori rappresentanti della graphic novel, un’arte in cui il fumetto non viene più impiegato come mezzo espressivo per storie d’avventura, come in Corto Maltese di Pratt o nei supereroi tipici della Marvel Comics, ma per trattare questioni cruciali e non rinviabili della condizione umana.
La densità di queste opere e autori hanno fatto sì che avessero importanti riconoscimenti come il Premio Pulitzer conferito nel 1992 a Spiegelman per Mauss. Evolvendo su questa scia, Igort ha sviluppato interessi decisivi nel raccontare la nobile e ignobile miseria umano-politica dell’est Europa, prima con Quaderni Ucraini e poi con Quaderni Russi, regalando pagine intense sulla condizione dell’Unione Sovietica e delle conseguenze del suo crollo. Se Spiegelman aveva concentrato l’interesse sulla Shoah – una graphic novel che a mio avviso ispirò anche Cattelan, Gioni e Subotnick nell’idea della IV Biennale di Berlino, che non a caso intitolarono Uomini e topi e dove la tecnica del disegno ebbe una notevole presenza -, Igort guarda invece ai gulag siberiani e alla condizione di insicurezza sociale e politica nell’ex Unione Sovietica: Ucraina, Russia, Cecenia… Luoghi in cui la libertà della vita, la libertà d’espressione, dell’essere e della sopravvivenza sono continuamente a rischio, come dimostrato nei Quaderni Russi, che raccontano e analizzano la questione tramite il racconto dell’assassinio della giornalista Anna Politkovskaja. Robert Crumb, invece, fa parte della cultura underground americana che si è sviluppata a partire dagli Anni Sessanta a San Francisco e che si accompagnava e/o sorgeva nell’ambito del movimento hippy, della nuova cultura musicale e di vita e delle promesse del futuro che questa esprimeva, insomma il lato contestatore della cultura pop. Crumb, con un segno corrosivo tipico della West Coast, si occupa di questioni relative alla libertà sessuale al razzismo, alle nuove identità, fino a cimentarsi con uno dei più grandi racconti dell’umanità, la Bibbia, con la sua opera Genesi.
Sono tutte buone novelle da leggere e da vedere. Come sono da leggere e da vedere le opere di artisti americani che al contrario usavano e usano il fumetto nel mondo delle “arti visive”, come in parte Mike Kelley o in toto Raymond Pettibon, svezzati non a caso nella stessa Frisco controculturale di Crumb.
E noi? E il western? Da noi non è West Coast, quindi è il western ad attirare l’attenzione di alcuni artisti, come avviene negli Anni Settanta per il situazionista Gian Emilio Simonetti e oggi Luca Bertolo, che in certi casi hanno utilizzato alcuni episodi di Tex Willer, sostituendo i testi delle strisce e dei balloon con frasi che vanno dalla critica sociale del papà del Comunismo, Carlo Marx, a quella social-spettacolare di Guy Debord. Insomma, fumetto e arte, arte e fumetto, che poi in molti casi sono la stessa cosa, alleati per una necessaria critica sociale dell’esistente.
Giacinto Di Pietrantonio
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #11
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