Bonami (in disparte), Ortega, Borchart-Hume e la Cola Cola antropomorfa. La Collezione Sandretto Re Rebaudengo in visita alla Whitechapel di Londra: il report della mostra e del talk inaugurale
Che ci fanno Francesco Bonami, l’artista messicano Damian Ortega e il fresco fresco Head of Exhibitions della Tate Modern Achim Borchart-Hume seduti ad un tavolino con una bottiglia di Cola Cola? Ve lo spieghiamo subito: in occasione dell’apertura di Love Meal, terzo appuntamento dedicato alla Collezione Sandretto Re Rebaudengo, la Whitechapel Art Gallery di Londra […]
Che ci fanno Francesco Bonami, l’artista messicano Damian Ortega e il fresco fresco Head of Exhibitions della Tate Modern Achim Borchart-Hume seduti ad un tavolino con una bottiglia di Cola Cola? Ve lo spieghiamo subito: in occasione dell’apertura di Love Meal, terzo appuntamento dedicato alla Collezione Sandretto Re Rebaudengo, la Whitechapel Art Gallery di Londra ha invitato i due curatori a dialogare con uno degli artisti coinvolti nella mostra, che è arrivato direttamente del Messico per l’occasione. A benedire l’incontro, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, seduta in prima fila. Nel talk dai toni rilassati e divertiti, Ortega si concentra principalmente sull’opera esposta, 120 Days, costituita da 120 varianti del classico design della bottiglia di Cola Cola, in cui l’artista (ancora engagé nonostante la satira politica faccia parte del suo passato) vede la minaccia di un imperialismo economico, culturale e politico, simbolo di un espansionismo che non trova barriere. La bottiglia originale è il punto di partenza per sottoporre la celebre silhouette a un processo di metamorfosi quasi umana, tramite l’accentuarsi di estremità e rotondità palesemente femminili. L’artista racconta appassionato il work in progress, fatto di giri nella campagna toscana, tra Siena e Poggibonsi, per trovare gli anziani maestri del vetro soffiato ai quali far realizzare l’opera, e del riferimento tutto italiano del titolo, che è un omaggio a Salò o 120 giornate di Sodoma di Pasolini.
L’attenzione di concentra poi sull’opera Cosmic Thing, una Volkswagen Beetle smontata in tutti i suoi componenti e sospesa a mezz’aria, esposta all’Arsenale nella Biennale di Bonami del 2003 nella sezione Il Quotidiano Alterato curata da Gabriel Orozco. Ortega racconta di aver smontato l’automobile nell’angusto spazio della sua abitazione in qualche ora, aiutato da due ragazzini, e di aver visto l’opera terminata solo una volta montata negli spazi immensi dell’ICA di Philadelphia, esclamando stupito “Oh, it looks good!”. Spiega poi l’uso del sale come elemento chiave in alcune opere, rivelando la sua predilezione per una in particolare: un cubo di sale realizzato tramite compressione dentro ad una scatola. Il risultato è un cubo perfetto, bianco purissimo, simile al marmo. Per Ortega il sale è molto più di un componente della nostra alimentazione: è simbolo del valore economico, non a caso, sottolinea, la parola “salario” deriva dall’usanza nell’antica Roma di pagare in sale. Nella conversazione gli occhi sono tutti sull’artista; Achim Borchart-Hume introduce e chiarisce, mentre Bonami rimane in disparte, prendendo la parola per qualche domanda scherzosa. Prima per proporre all’artista un’eventuale retribuzione in sale, poi chiedendogli se, visto che riesce a trasformare cose senza valore in oggetti carissimi (vedi vecchia Volkswagen e bottiglie di Coca Cola), sia mai riuscito a fare il contrario. E l’artista divertito racconta: “Sì, quando ho tagliato una cravatta costosissima per fare un’opera, ero giovane, non lo sapevo!”. Qui sotto le nostre foto, e i volti della serata…
– Roberta Minnucci
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