Giulia racconta Mafai. Parte II
Seconda parte dell'intervista a Giulia Mafai, autrice de “La ragazza con il violino” (Skira), scenografa e costumista figlia di Antonietta Raphael e Mario Mafai. Un percorso che, dalla storia di due grandi artisti, entra nel vivo del cinema e del teatro dagli Anni Cinquanta a oggi.
Come le ricerche artistiche dei suoi genitori hanno influenzato la sua vita professionale?
La scelta di fare il liceo artistico è stata naturale. C’è stata sempre, fin da ragazza, la consapevolezza di avere qualità e buon gusto, ma non le doti di un artista. Non ho mai fatto un paesaggio, per dire, proprio per il grande rispetto che portavo all’arte e alla pittura. Certo, per fare i miei bozzetti prendevo in mano i colori, ma l’approccio era diverso. Ho sempre avuto considerazione dei miei limiti. Mia madre diceva sempre: “Qualunque cosa tu faccia, è importante che la faccia bene” . E ho portato avanti il mio lavoro con grande amore e passione. Non mi sono mai sognata di “attraversare la strada” e fare l’artista.
Le è mai capitato di portare l’arte dei suoi genitori nel cinema o nel teatro?
Una volta Maurizio Scaparro, con il quale ho avuto una lunga collaborazione, mi propose per Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello di proiettare, per raccontare la Roma degli Anni Venti, un paesaggio di Mafai. E io dissi di no. Mi sembrava di compiere un gesto didascalico, che non si accordava con la sua regia. Sarebbe stato un omaggio bellissimo – gli dissi allora – ma non adatto alla sua scena. Ad ogni modo, Mafai è entrato in molto cinema. Ad esempio in De Sica, o ne La Luna di Bertolucci, dove c’è una bellissima carrellata su Roma che sembra un vero e proprio omaggio a Mafai… Anche se l’arte di mio padre – e non lo dico con una accezione né positiva, né negativa, ma solo con l’obiettivo di fare una considerazione – non è mai diventata una sigla, come è stato per altri artisti. Se vedi delle bottiglie, pensi a Morandi. Se vedi un manichino, pensi a de Chirico, ma se vedi dei fiori secchi, la mente non corre subito e necessariamente a Mafai.
Lei ha lavorato con alcuni tra i migliori registi della tradizione italiana. Come è stato il suo percorso professionale?
Il mio lavoro non è poi così semplice, anzi, l’esecuzione è abbastanza pesante. Nella mia carriera ho avuto l’opportunità di lavorare con Vittorio De Sica, Mario Monicelli, Damiano Damiani… Erano registi che rispettavano molto il lavoro dei loro collaboratori. Avevano fiducia in te, perché ti avevano scelto un po’ come il loro terzo occhio. De Sica, quando gli portavo gli attori prima del ciack, diceva solo “meraviglioso!”, oppure alzava e abbassava la mano, come un direttore di orchestra, a indicare, per dire, un cambiamento di tono. Monicelli era una persona acuta, straordinaria, intelligente… Era un toscano, ti diceva una battuta e ti tagliava la testa ed eri sempre sul filo del rasoio con lui, perché non perdonava niente. Ma non ha messo mai bocca sul mio lavoro. Con lui, ad esempio, ho fatto Amici miei, una sceneggiatura che non voleva nessuno e poi è diventata un cult. Damiano Damiani era un testardo. Le idee dovevi fargliele digerire, anche con buona grazia. Però con Damiano si lavorava benissimo. E che dire del Cyrano de Bergerac di Gigi Proietti: è stato un carosello, un luna park che mi ha spronata a fare sempre di più, sempre meglio.
Tra le sue più grandi soddisfazioni?
Sono molto orgogliosa dell’invenzione del Carnevale di Venezia nel 1978, che ha invaso tutto il mondo. Fino ad allora il carnevale era stato molto convenzionale. Tu pensa che in quella stagione gli alberghi a Venezia erano chiusi, perché la gente andava altrove, che so, a sciare… Quello che io e Maurizio Scaparro abbiamo fatto quell’anno è stato un momento di rottura, un qualcosa di dirompente che è durato parecchi anni. Mi ricordo che la prima sera, vedendo i risultati che avevamo ottenuto, gli dissi, sul balcone: “Maurizio, e se domani sera è come oggi?”. È stato un momento di grande successo. Mi sono sentita una star!
In cosa, secondo lei, differisce il modo di fare cinema oggi da quel periodo?
Continuo a seguire il cinema con una certa passione. Trovo però che la crisi del cinema italiano nasca dalla crisi dell’uomo. Alle volte mi sembra che alcuni registi non conoscano l’uomo. Oggi c’è un grande individualismo e il cinema che lo rispecchia è poco interessante. Non c’è più un personaggio straordinario come il Vittorio Gassman de Il Sorpasso o un Alberto Sordi, per dire. Non critico il cinema italiano, però il punto è che cosa racconti.
Santa Nastro
Giulia Mafai, figlia di Antonietta Raphaël e del pittore Mario Mafai, è una nota costumista del cinema e del teatro. Con Skira ha pubblicato “Storia del Costume dall’età romana al Settecento” (2011) e “La ragazza con il violino” (2012).
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