24 punti di vista sui beni culturali. Intervista con Franco Bernabè
È uscito da pochi giorni “Scene da un patrimonio. Ventiquattro interviste per capire e rilanciare il settore dei beni artistici”. Una raccolta di opinioni “pesanti” sullo stato dei fatti in Italia e per immaginare un futuro diverso. Un libro curato da Antonio Carnevale e Stefano Pirovano per la giovane Galaad Edizioni. Qui vi presentiamo l’intervista a Franco Bernabè, presidente del Mart di Trento e Rovereto.
Partiamo dal Mart, di cui lei è presidente dal 2004. Qual è stata la chiave del successo di questo progetto?
Tutto parte dal sistema di governance e dalla convergenza di tutti gli attori sulla scena. Da un lato i finanziatori, di cui il principale è la Provincia di Trento, non hanno mai interferito nelle scelte culturali. Dall’altro, la direzione artistica è sempre stata in grado di lavorare in completa autonomia, anche grazie al consiglio di amministrazione e al suo presidente, che di questa autonomia sono stati i garanti nel tempo. Così ognuno ha potuto fare il proprio lavoro, senza conflitti di interesse.
Come si è comportata la politica locale?
Non ha mai preteso quello che il museo non poteva dare, cioè scelte culturali indirizzate da interessi personali. Al contrario, ha sempre ottenuto ciò che esso doveva dare secondo gli obiettivi che la politica stessa aveva fissato, ovvero l’attivazione di energie e risorse attraverso la cultura.
Come ci si mantiene in equilibrio?
Con un sistema di regole molto preciso all’interno di un quadro in cui le scelte culturali vengono sempre fatte in maniera trasparente. Come nel caso, nel 2011, della nomina del nuovo direttore. È un momento di discontinuità che credo sia stato gestito in maniera corretta, cioè con un pubblico bando e una libera commissione che ha valutato le candidature secondo elementi oggettivi.
Il Mart, però, è un’isola felice. Altrove la politica interviene, e in maniera spesso pesante. Questione di regole o di qualità delle persone?
Nel nostro caso la Provincia si è limitata a rispettare rigorosamente le regole che essa stessa si era data. E lo ha fatto sin dal momento in cui ha chiamato Gabriella Belli alla direzione per poi scegliere me come presidente, confidando nella mia capacità di garantire indipendenza. Di fatto, per volontà politica si è stabilita la struttura, che poi ha permesso il buon funzionamento del meccanismo e la giusta valorizzazione delle risorse umane e strutturali. Ma è vero, riguardo alla cultura il problema in Italia è quello di una politica sempre troppo invadente.
Così i ruoli si confondono.
Ovvio, e non si valorizzano le loro specificità. Un politico non è un curatore o un direttore di museo, ma questo spesso non viene capito. D’altra parte, gallerie, politici, curatori, rappresentano sistemi di interessi collegati tra di loro che, se non vengono incanalati in maniera adeguata, finiscono per soffocare l’attività di un museo.
Crede che il Mart sia un modello replicabile?
Il modello Mart non è molto diverso da quello dei grandi musei internazionali, ma se funziona è soprattutto perché le finalità sono chiare e vengono rispettate. Semmai, il problema è che la regolamentazione delle strutture non è considerata importante quanto dovrebbe. Ho l’impressione che non ci si pensi nemmeno più. In Italia vige un sistema relazionale, non oggettivo. Trovi lavoro in base a chi conosci, non a quanto sei bravo a svolgere un determinato compito. Così il sindaco sceglie il curatore suo amico, o che gli è stato suggerito dalla sua parte politica, anche se di cultura non si è mai occupato. Ma in questo modo le cose non possono funzionare. Arriverei persino a dire che ormai non è più nemmeno un problema di regole, ma della loro assenza o, peggio, della loro ignoranza. Il vero paradosso è che l’assessore fa il curatore e il pubblico nemmeno si scandalizza.
Per alcuni, decentramento e federalismo sono, quando si parla di cultura, mali da evitare a tutti i costi. Lei cosa ne pensa?
L’esperienza del Trentino suggerirebbe il contrario. Qui è stato proprio grazie all’autonomia locale che un progetto ambizioso come il Mart ha potuto vedere la luce e dare risultati. Naturalmente, perché l’autonomia funzioni servono le condizioni adatte: risorse economiche, competenze specifiche, tradizione culturale, anche nel rispetto delle regole. In generale, però, non credo che le autonomie siano in sé una condizione di successo. Penso piuttosto che lo Stato abbia un ruolo fondamentale nella gestione dei beni culturali, perché è l’unico a poter garantire quelle economie di scala che nel piccolo sono impensabili. Oltretutto lo Stato è per sua natura più trasparente, lo è a tutti i livelli. Per questo sono convinto che la crisi dei beni culturali sia anche lo specchio dello crisi dello Stato. Storicamente i grandi musei crescono e si sviluppano quando il potere politico è forte e ha solidi ideali. Si pensi alla Francia napoleonica, per esempio, o ai musei tedeschi di fine Ottocento.
Ci sono circa 4.200 musei in Italia, crede sia un numero sostenibile?
Sì, i musei sono molti, forse troppi. Spesso si pensa che possano risolvere i problemi delle comunità locali, magari in termini di turismo o di riconversione di aree dismesse in cerca di identità. Si dimentica però che il problema del museo non è la struttura, ma la sua vitalità. È da lì che si vede la sua capacità di attivare un territorio, di avere una politica culturale, di incidere. Un museo non è un edificio con un po’ di opere dentro. Credo che in ogni caso per affrontare la questione si debba partire dalle persone.
Quindi?
Torna il problema delle dimensioni. I grandi musei sono strutture con personale super specializzato, capaci di attrarre risorse e di restituirle al territorio. Strutture che crescono, si evolvono, condividono esperienze, educano. Un bravo curatore, se può, non va in un piccolo museo di provincia, dove si può trovare solo e spaesato, quando invece deve vivere di sapere e di relazioni. Solo grandi istituzioni private, oppure lo Stato, possono garantire le condizioni necessarie.
Però l’Italia è un territorio policentrico, che quando si parla di arte contemporanea mostra tutti i suoi limiti rispetto alle grandi metropoli, dove più facilmente l’arte contemporanea attecchisce e cresce.
Infatti. Il tipo di fruizione del patrimonio culturale che solo da noi si può avere è qualcosa che va conservato e valorizzato. Ma il punto, di nuovo, non è quello di gestire un’organizzazione specifica, bensì di creare un sistema con la giusta mentalità. Il valore di un museo non si misura solo dal numero di visitatori, ma anche dalla sua capacità di fare didattica, di promuovere nuova cultura, di valorizzare quella esistente. Non si tratta solo di organizzare qualche mostra. L’audience è importante, ma la cultura è altro, e il museo dovrebbe essere qualcosa di più simile a un’università che a un teatro. Di nuovo, le vere risorse culturali, dopotutto, non sono le opere, ma le persone.
Vista dall’esterno, come colloca l’Italia sullo scacchiere dell’arte contemporanea internazionale, cioè quella che creano gli artisti viventi?
Purtroppo non siamo nel novero dei grandi Paesi produttori.
Per intenderci, come ci piazzeremmo in un ipotetico campionato del mondo?
Probabilmente faticheremmo perfino a qualificarci. Abbiamo un ambiente chiuso, non favorevole, dominato da poche persone che controllano tutta la filiera e hanno poco interesse all’accesso di nuove presenze. Per contrasto penso a Berlino, che dimostra come la creatività sia una risorsa fondamentale per l’intera società. Un bene da rispettare e valorizzare, a condizione del quale ci sono sempre libertà e meritocrazia.
Poi c’è il problema dell’educazione.
Vi rispondo portando un esempio dal settore di cui mi occupo. In Italia internet è meno diffusa che in Inghilterra, Francia o Germania e la ragione principale è che da noi non c’è dimestichezza con l’uso del computer. Perfino la Turchia ci batterà presto.
Qual è la caratteristica che preferisce trovare in un direttore di museo?
Deve avere una visione, cioè deve saper dare un’identità al suo museo, interpretandolo.
E in un artista?
La capacità di esprimere emozioni attraverso una solida competenza tecnica.
Che consiglio darebbe al prossimo ministro dei Beni culturali?
Gli direi di concentrarsi sulle regole e sul modo di farle rispettare.
Antonio Carnevale e Stefano Pirovano
intervista tratta da:
Antonio Carnevale & Stefano Pirovano – Scene da un patrimonio. Ventiquattro interviste per capire e rilanciare il settore dei beni artistici
Galaad, Giulianova 2013
Pagg. 238, € 15
ISBN 9788895227863
www.galaadedizioni.com
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