In un mondo colonizzato da immagini liquide che sfidano ogni concezione storica del tempo, che speranza c’è per la sedimentazione simbolica? C’è un tempo per assimilare l’inarrestabile flusso che governa il mondo dell’arte? L’estetica generalizzata che da qualche tempo anima autori come Genette, Jean-Marie Schaeffer, Yves Michaud e altri fa del pluralismo un postulato che ha forti analogie con la democrazia liberale fondata sulla diversificazione del prodotto. L’eredità della filosofia americana (Goodman, Danto) da cui prendono spunto predilige l’approccio descrittivo a quello valutativo, il quale mette l’accento non più sulle differenze che le opere provocano, ma sull’analisi delle descrizioni.
L’irriducibilità soggettiva rivendicata da questa visione estetica tende a legittimare una concezione delle opere d’arte come sfera privata. In altre parole: fai una cosa qualsiasi, purché poi associ un significato qualsiasi che lo istituzionalizzi in quanto “opera d’arte”. Perché non è la cosa in sé che vale, ma l’idea che gli è associata.
In questo contesto, gli oggetti d’arte si trasformano in segnali di riconoscimento di un’idea. In genere questi autori fanno di Duchamp il loro campione. Ma è proprio Duchamp a smentirli quando, nei suoi appunti e nelle sue lettere, dichiara di essere un artigiano e non un “artista concettuale”, e che agli “artisti” preferiva la compagnia del signor Candel, venditore di formaggi. In alcuni appunti dichiara di essere interessato alla costruzione di “cose che osano” e non di “cose qualsiasi” come le scatole Brillo di cui va pazzo Arthur Danto. Il bricolage era la sua passione: unisce caso e rigore.
Il vero scandalo di Duchamp – ricorda Didi-Huberman -, più che l’orinatoio, era rendere le opere non commerciabili. Solo poco prima di morire, nel 1967, un museo europeo acquistò una sua opera. Tutto il contrario della teoria pluralista dell’arte. Che scambia giudizio di realtà e giudizio di valore, per parlare la lingua di Kant. Vale a dire giudizio a posteriori (il significato che si associa a un oggetto) e giudizio riflettente (la costruzione del senso, oggi così mortificato). In altre parole: assistiamo al trionfo dei fatti a scapito dei fattori. Trionfo degli effetti sulle cause.
Marcello Faletra
saggista e redattore di cyberzone
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #12
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